Once in a lifetime: Italo Calvino

Nella notte tra il 18 e il 19 settembre 1985 muore a Siena Italo Calvino, di professione scrittore. Calvino ha incrociato tutte le più importanti tendenze letterarie del Novecento ma, pur facendo tappa in tanti diversi porti, ha mantenuto sino alla fine la sua personale rotta senza dare troppo bado ad avvisi e consigli, tenendo la prua su quelle traiettorie che aveva immaginato sin dai primi esordi, sin dagli anni incerti, tra la politica, le commedie e i racconti, tra la clandestinità e la vita partigiana.

Cercare il vento.

Calvino ha cercato il vento dove gli altri non hanno osato, spingendosi fuori dai limiti fissati dalle carte e lì ne ha atteso le improvvise folate, in mare aperto, sciogliendo per tempo le vele, in sicurezza e semplicità. Questo suo tratto, leggero, volatile ed apparentemente distante dal suo tempo teso, questo intrigante “mezzofiato” da scrittore breve di fiabe e racconti, d’un colpo passato dalla giovinezza ad una matura vecchiaia senza mai diventare adulto, questa sacra ostinazione creativa che gli ha imposto di cambiare ogni volta i registri, ne ha fatto uno dei più brillanti e ispirati capitoli della letteratura del secolo scorso. La sua straordinaria poetica è così cresciuta nel perimetro di una profonda ricerca personale ed al cospetto dell’alternarsi delle diverse stagioni, spingendosi avanti, in territori ignoti, sino a scorgere nell’intricata complessità del reale le infinite trame del vivere quotidiano e il labirintico senso di smarrimento della contemporaneità.

Uno scrittore letterato.

Calvino era uno scrittore letterato, un fine editor non solo delle opere del catalogo di Giulio Einaudi, ma pure di se stesso. Italo è stato infatti il primo e più acceso censore di tutto il suo esuberante talento. Nelle sue opere aveva così imparato a celare gli eccessi dello zelo che molto spesso ne ha governato le scelte, suggerendo cambi di direzione, improvvise derive e svolte. Calvino si lasciava incantare dal racconto e dalle storie. Le studiava, cercando di catturarne l’essenza, la parte più profonda e nascosta, quel meccanismo segreto che le rende leggere e intelligibili. Cercava fiabe. Le cercava ovunque e, quando le trovava le scomponeva per poi ricostruirle, parola per parola, con la stessa cura di un architetto, dosando le forze della statica e della gravità, cercando di mettere assieme la necessaria esigenza della solidità con la potenza della bellezza. Si misurava con la complessità e con la difficile arte della sottrazione ripassando spigoli e spessori sino a lasciare in evidenza solo ciò che serviva. Questa sua capacità, unitamente ai tratti più schivi e poliedrici del suo carattere, è stata spesso scambiata per distanza e fredda geometria, finendo per idealizzarne con superficialità la figura e sottraendola ai tracciati del quotidiano. Nel dorato isolamento della teca di cristallo entro cui è stata racchiusa, l’opera di Calvino, celebrata da iperboli e aggettivi, è rimasta sempre ai margini dei principali percorsi critici facendo fatica ad incontrare le giovani generazioni di lettori. Così è accaduto che la sua fama e la sua considerazione siano cresciute molto più all’estero che in patria, in particolare in Inghilterra e negli Stati Uniti, paese prediletto che attraversò più volte ed a cui dedicò un storico ventaglio di appassionate riflessioni.

Diverso da tutti.

Tra innumerevoli e brillanti qualità, ce n’è una che mi piace ricordare, perché mi sembra che restituisca fedelmente la grandezza della sua attitudine di fondo e quel suo speciale modo di concepire l’avventura della vita. Perché Calvino rifuggiva le luci del palcoscenico. Scriveva, ma non pensava come gli scrittori tradizionali, schiavi di un effimero delirio di onnipotenza che li spinge a sentirsi unici e speciali. Calvino era diverso da tutti. Italo scoraggiava gli amici, temeva gli incontri letterari, non si lasciava attrarre dagli aspetti più mondani, risultava addirittura goffo e impacciato quando veniva incalzato dalla più vacua conversazione da salotto, rimaneva fieramente distante da ogni protagonismo. Calvino abitava altrove. Respirava nelle pagine dei suoi racconti e delle sue storie, ne misurava i paragrafi con grande senso di umiltà, concretezza e spirito di servizio. Perché Calvino viveva nelle sue trame,  traducendo la realtà in immaginifiche visioni che erano sempre destinate a fare compagnia ai lettori, come un fuoco invernale in un camino. Calvino pensava e scriveva le proprie storie come fossero legna da ardere ed affidare alla fiamma, come fossero un piccolo capitolo di un libro più grande, di una narrazione millenaria che non avrebbe mai voluto né potuto controllare.

“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”