Once in a lifetime: Carlo Parola

Il 20 settembre 1921 nasce a Torino Carlo Parola, di professione calciatore, prima, e allenatore, poi. Le strade che portano all’immortalità sono spesso frutto di singolari coincidenze e involontarie sincronie. Una questione di attimi, secondi e istanti. Proprio come nel caso di un giovane calciatore, un robusto ed affidabile interno bianconero, che quando scese in campo al Comunale di Firenze, quella domenica pomeriggio del 15 gennaio 1950, mai e poi mai avrebbe pensato che un suo acrobatico intervento difensivo all’ottamtesimo minuto di quella partita gli avrebbe aperto le porte della storia.

Un pomeriggio speciale.

Quella di Firenze era una partita dura e difficile, ma non più di molte altre. Quel campionato, che respirava ancora  la polvere delle macerie e sognava la verticalità della ricostruzione, cercava di lasciarsi definitivamente alla spalle la tristezza e il dolore della guerra. Il football non aveva mai perso il suo appeal, nemmeno in quegli anni bellici, figuriamoci adesso che il futuro era tornato ad affacciarsi dagli spalti. Il girone di andata era stato dominato dalla Juventus, che guidava da sola la classifica davanti alle due milanesi. Quella domenica andava a Firenze per la prima giornata di ritorno con l’obiettivo di portarsi via un punto proprio per tenere a distanza la Fiorentina, che tallonava le prime dalla quarta posizione a nove punti di distanza. I bianconeri, allenati dallo scouser Jesse Carver, uno dei due allenatori allenatori britannici, l’altro fu William Garbutt, che riuscirono a conquistare uno scudetto, sono una squadra solida e ben impostata che si affida alla creatività di Boniperti e alla mira del danese Hansen. Dall’altra parte, la viola di Ferrero sta giocando un calcio capace di mettere in difficoltà qualunque squadra, grazie anche alla classe di Chiappella e ai gol di Egisto Pandolfini. La partita si disputa sotto un cielo umido e grigio e il Comunale presenta un magnifico colpo d’occhio con le tribune strapiene di folla, ombrelli e cappelli.

Uno scatto iconico.

Lo straordinario gesto di Parola passa alla storia grazie al tempestivo scatto di una bravo fotografo. Quell’aerea impresa acrobatica entra infatti nella modernità calcistica grazie a Corrado Bianchi, che riesce a catturarne la tensione, la forza e la potenza. Quella di Parola non è di per se impresa formidabile, ma lo diventa per l’immaginario collettivo nel corso degli anni seguenti. La riprende, infatti, la Panini che la ridisegna trasformandola, dal 1965 in avanti, nel simbolo dell’oggetto dei desideri di qualsiasi giovane imberbe. Quel plastico disegno impresso sui pacchetti di figurine delle raccolte Calciatori diverrà un’icona che segnerà un’intera epoca di sogni e speranze. La rovesciata di Parola è diventata il calcio e ne ha degnamente rappresentato per decenni il suo spirito libero e l’essenza più spettacolare per tanti motivi: per il movimento perfetto e coordinato, per la dimensione prospettica, per il magistrale equilibrio tra i diversi piani orizzontali e la profondità plumbea del cielo, per l’ipnotica centralità della sfera di cuoio, per la dinamicità, per la magica atmosfera di sospensione, per il muro di pubblico appeso sul fondo, per le zolle d’erba bagnata in rilievo, ma, anche e soprattutto, per quell’intrinseca ansia che solo un difensore conosce, quella sottile e infinita foga di anticipare l’avversario e il suo fiato corto, di rubargli il tempo spazzando via la sfera per mandarla in una qualsiasi altra parte del campo, se non del globo. Ovunque, ma non lì.

Un fine conoscitore della scienza calcistica.

Tutto questo è stata ed è la rovesciata di Parola. Ma Carlo non fu solo un longevo calciatore che indossò per quasi vent’anni la maglia della Juventus. Parola fu un fine conoscitore del football e dei suo romantici protagonisti, un vero signore e un’anima gentile. Carlo era uno che parlava poco, ma che, quando lo faceva, trovava sempre parole cortesi. Era uno che si arrabbiava raramente e che non frequentava polemiche o discussioni, uno che volava alto, insomma, avvezzo com’era alle atmosfere aeree. E pensare che avrebbe voluto fare il ciclista, ma poi la passione e il richiamo del calcio operaio del Dopolavoro Fiat lo aveva conquistato. Quando aveva cominciato a correre dietro ad un pallone di cuoio, in pieni anni trenta, faceva ancora l’attaccante e di gol ne segnava a grappoli, ma poi finì a fare il centromediano e, infine, lo stopper. Nel corso di quel suo fatale arretramento, Parola acquisisce acume e una solida visione di gioco, che gli gioveranno quando deciderà di andare a sedersi in panchina, all’indomani del ritiro. La carriera di “Nuccio Gauloises”, come lo aveva ribattezzato Giovanni Arpino per via del quotidiano “vizietto” del pacchetto di sigarette, si chiude a metà degli anni settanta quando l’amico Boniperti lo chiama per raddrizzare una difficile stagione. Purtroppo non vi riuscirà e dalle parti di Villar Perosa si aprirà, così, il ciclo del “mitico” Trap. Quest’oggi lo voglio ricordare così, con gratitudine, ricorrendo alle stesse parole dell’autore di quel memorabile scatto di quella fredda domenica di campionato: “Parte un lancio di Magli verso Pandolfini. Egisto scatta, tra lui ed il portiere c’è solo Carlo Parola; l’attaccante sente di potercela fare ma il difensore non gli dà il tempo di agire. Uno stacco imperioso, un volo in cielo, una respinta in uno stile unico. Un’ovazione accompagna la prodezza di Parola.»