Once in a lifetime: Irvine Welsh

Il 27 settembre 1958 nasce nel borgo scozzese di Leith, sbocco marino di Edinburgo, Irvine Welsh, scrittore di futura professione. La sola idea che il suo primo libro, divenuto un successo planetario nonchè un film generazionale, sia stato scritto solo per una scommessa con se stesso e per una sorta di terapeutica caccia ai fantasmi è già, di per sé, cosa autentica, rara e straordinaria, in questi tempi di spietati iperspecialisti della parola on demand. Irvine alla parola scritta ci è arrivato senza cercarla, senza fare anticamera nelle agenzie letterarie, senza inseguire editor o case editrici. Irvine è diventato scrittore suo malgrado e quasi malvolentieri.

Tra Celine e i Chemical Brothers.

Comunque sia andata, le parole a Irvine non sono mai mancate. Grazie a loro, Welsh si è magistralmente immerso nelle ordinarie e avventurose peripezie del disagio suburbano senza mai rischiare di annegarvi. Proprio questo ne ha fatto un capitolo a parte nella scena letteraria: perché Irvine è stato rottura, perché ha giocato con la provocazione, perché ha mostrato di aver messo profonde radici in quell’agitato universo di stili e derive che compone la scena artistica contemporanea. Welsh è un singolare anello di congiunzione tra Louis Ferdinand Celine e i Sex Pistols, William Burroughs e i Chemical Brothers. Di questi ultimi, Welsh mostra la stessa acida essenzialità dei primi lavori, l’incalzare del ritmo, la vertigine del pop, la feroce capacità di corrodere, incidere ed attaccare ogni superficie, scavando il solco sino lasciare intravvedere i margini nascosti. Allo stesso modo del nervoso breakbeat di Tom Rowlands e Ed Simons, la sua narrazione cavalca un mondo irregolare e alternativo, che si nutre di miti ed espedienti, ma che rimane, al contempo, in territori riconoscibili e frequentati, mescolando ingredienti distanti tra loro, generi letterari, subculture giovanili, stili, immagini, pinte di birra e suoni abrasivi.

Una magnifica boccata di aria viziata.

Splendidamente cinici, cattivi, geniali, disperati e spietati, i lavori di Welsh (da “Trainspotting” a “Il Lercio”, da “Glue” a “Skagboys”) hanno rappresentato una magnifica boccata d’aria viziata nell’ingessata scena letteraria britannica. Perchè Welsh è tornato a parlare il linguaggio dei blocks e delle terraces, delle pulsioni primitive del football e delle firm da periferia, trasponendo il mondo reale con lucida e sfrontata naturalezza iconoclasta. Perchè Welsh ha fatto a pezzi la “Cool Britannia” da cartolina di Tony Blair, perchè ha provato a raccontare la realtà senza metafore e trucchetti, senza retorica o la solita banale moralità da quattro soldi, come avrebbe fatto Ken Loach, se solo fosse tornato indietro negli anni a recuperare un pizzico di cattiveria in più, magari dopo un bel ripasso intensivo del cinema di Germi e Rossellini.

Provocazioni, azzardi e equilibrismi

Welsh non ha mai amato i bluff, quanto piuttosto le scommesse, le provocazioni, gli azzardi e gli equilibrismi. Perché la vita di cui scrive è proprio quella lì, quella che ha smesso da tempo di fare programmi perché li ha esauriti e perché non sa nemmeno più come fare. Quella che si annoia ai dibattiti, quella che non va a votare e che guarda con sospetto ogni nuova idea illuminata, quella che si incazza alle fermate della metropolitana se il cellulare non prende, quella che cerca sempre le scorciatoie, che consuma senza produrre e che chiede un futuro senza sapere nemmeno di cosa si tratti. Quella, insomma, che senza pudore o ipocrisia, punta al sussidio solo per andare a giocarsi la giornata alle corse dei cavalli. Di lui, dei suoi pamphlet scomposti e scorretti, ce n’è sempre più bisogno. Perchè in quel suo mondo i compromessi ed i riti della vacua diplomazia hanno fatto il loro tempo. Perché si è sbarazzato del buonismo radical chic che, invece, tormenta ancora il nostrano salotto culturale. Perché nelle sue pagine si inveisce, si rutta, si mangia, si beve, si urla e si piange, si perde sangue e sudore. Perché lì, tra quelle righe, respira tutta la tragica e anonima normalità di questi strani giorni. Perché Irvine ha compreso che la vita è pur sempre quella cosa che non fa mai sconti agli ultimi della fila, per nessuna ragione, nemmeno quando ci sono i saldi. Perchè anche lui, come i suoi personaggi alla fine si rifugia in passioni contrastanti e discutibili che non fa nemmeno la fatica di celare, come l’amore per i biancoverdi dell’Hibernian e il viscerale odio per i cugini Hearts. I suoi personaggi, estremi, sbandati e disadattati, rimangono stabilmente nella scia di traiettorie pericolose, ai margini del perimetro, e lì si agitano, facendo i conti con il presente ed il passato cercando di rimanere a galla tra gli stessi flutti che hanno stretto d’assedio il sogno britannico.

“Nessun aspirante scrittore dovrebbe mai studiare letteratura. Amo la letteratura da scrittore e da lettore, e il modo di leggere i libri delle università è invece analitico, noioso. E poi uno scrittore ha bisogno di capacità di ricerca, di imparare a trovare le informazioni giuste. Meglio studiare, economia, belle arti o scienze che studiare letteratura”.