Once in a lifetime: Alan A’Court

Il 30 settembre 1934 nasce a Rainhill, piccola cittadina del Merseyside, Alan A’Court, di professione calciatore. La vita ci impone sempre delle scelte. Talvolta prendiamo le nostre decisioni dopo aver ponderato tutte le diverse opzioni ed aver stimato la rosa delle convenienze. Altre volte scegliamo una strada anziché l’altra per qualche incomprensibile variazione d’umore, per via di qualche sottile riverbero emotivo o solo per istinto o intuito. Comunque sia, tutti noi abbiamo imparato sin da piccini che scegliere vuol dire crescere e andare avanti, anche quando gli eventi ci sembrano precipitare. Alan ha sempre avuto il coraggio di fare delle scelte. Scelse il football al rugby, nonostante molte grandi squadre fossero pronte a spalancargli le porte della Lega maggiore. Scelse di rimanere a giocare sulla fascia sinistra nonostante tutti i suoi allenatori lo considerassero una punta centrale finendo per schierarlo quasi sempre al centro del reparto offensivo delle loro formazioni. Scelse il Liverpool all’Everton e al Bolton, anche quando le cose non andavano per niente bene ed anche i più cari amici cominciavano a suggerirgli una strada diversa. Ma, soprattutto, Alan scelse di rimanere per sempre ad Anfield, rifiutando le spietate lusinghe dell’Arsenal ed il miraggio di un ingaggio decisamente importante e nonostante la sua squadra continuasse faticosamente a remare in un’anonima seconda divisione.

Anni difficili e entusiasmanti.

Quelli erano anni difficili e affascinanti, duri e faticosi, quasi come la brezza severa che spinge la sabbia dal mare. La sua presenza in campo divenne un faro per tutti i compagni. Alan orientava i naviganti tra umori e tensioni, tempeste e morbide bonacce. Indicava la rotta e illuminava la costa quando calavano le ombre. Anche per questo divenne un idolo della Kop, al pari di altisonanti leggende come Bob Paisley, Laurie Hughes e il grande Billy Liddell. A’Court ricambiò quell’affetto con gli interessi, bruciando a suon di gol ogni tappa. In poco tempo Alan, il rugbista, divenne infatti un punto fermo dell’attacco dei Reds, componendo con Liddell una delle più prolifiche e temibili coppie offensive di sempre. All’età di 24 anni e 89 giorni Alan aveva già disputato 200 partite di campionato stabilendo un record che da quelle parti resiste sino a tutt’oggi. Ebbe anche l’onore di indossare con la maglia bianca della sua nazionale, quando ancora aveva un valore. Il merito fu tutto di Walter Winterbottom che lo chiamò, quand’era in seconda divisione, a rimpiazzare una colonna come Tom Finney. Fece benissimo e si meritò così anche la convocazione ai Campionati Mondiali del 1958 in Svezia. Rimase a Liverpool dal 1952 sino all’arrivo di Shankly, sino all’inizio della “golden age” del club, culminata con l’agognato ritorno in Prima Divisione. Poi gli infortuni gli imposero di fermarsi.

Il senso di un’appartenenza.

Alan rimase sempre a giocare per la sua squadra, anche negli anni più complicati, perché quella gli sembrava la cosa più naturale da fare, l’unica da percorrere. Qualsiasi altra soluzione gli sarebbe sembrata falsa e posticcia. Sarebbe stato come mentire a se stesso, come tradire quello che sentiva, come voltare le spalle alle emozioni e alle radici. Perché quando scendeva in campo era a loro che pensava, alla sua casa, ai genitori, agli amici, alla sua strada, ai pub e alle fabbriche e ai campi. Correva per loro, calciava per chi esultava sugli spalti ma anche per tutti coloro che non potevano farlo. Era quella mai sopita voglia di riscatto, quel profondo senso di appartenenza a spingerlo a dare sempre di più. Quella era benzina, un qualcosa di unico che gli faceva dare sempre il massimo, in ogni contrasto ed ogni stacco aereo, in ogni partita e in ogni condizione. Quel suo calcio, così fisico e d’impatto, così veloce e intenso, fatto di pressione e dinamismo, parlava alla gente, ai tifosi a tutti quelli che avevano deciso, come lui, di rimanere su quel percorso. Con quel pallone raccontava sogni ed timori, orgoglio e debolezze, gli scherzi della sorte e la sua idea del mondo. Quella era la maniera per cercare il suo posto in campo, come nella vita, era il modo che aveva scelto per lasciare un segno di quel suo fugace passaggio, qualcosa che potesse aiutare gli altri, qualcosa di cui andare fiero. L’ultima sua uscita con la maglia rossa numero undici coincise con la prima partita casalinga del Liverpool in un match valevole per una Coppa Europea. La partita era il ritorno del turno preliminare di Coppa dei Campioni contro gli islandesi del KR Reykjavik. Si giocò il 14 settembre 1964. Vinse il Liverpool. Vinse facile per 6 a 1, dopo aver già vinto all’andata per 5 a 0, e fu festa vera. A’Court non andò a segno. Per la cronaca a realizzare furono i compagni Byrne, St. John, Hunt e Stevenson, ma a fine partita corse ugualmente sotto la Kop ad applaudire i tifosi ed a stringere loro le mani per l’ultima volta della sua carriera. Alan se n’è andato per sempre il 14 dicembre 2009, ma per gli Scousers il suo nome è più che mai una leggenda, saldamente inciso nella Hall of Fame dei cento calciatori più amati di sempre.