Once in a lifetime: Abdon Pamich

Il 3 ottobre 1933 nasce a Fiume Abdon Pamich, marciatore per passione e vocazione. Abdon l’idea della marcia, il fiato corto della distanza, il ritmo costante e continuo se li portava dietro, nel sangue e nel cuore, sin da ragazzino, sin da quando, quattordicenne, era stato costretto ad abbandonare Fiume, con il fratello maggiore, per cercare di raggiungere il padre Giovanni a Milano. Anche il giovane Abdon, come molte altre migliaia di italiani, aveva subito in prima persona la dolorosa esperienza dell’esilio, anche lui aveva fatto le spese degli atroci e drammatici patti che si erano consumati a ridosso del confine orientale. Il suo era stato un viaggio lungo e difficile, una marcia perigliosa durata due mesi, camminando di giorno e di notte, macinando chilometri a piedi, tra valli e guardie, frontiere e controlli, treni e binari, sino al campo profughi di Novara. “Fu quella la gara più importante di tutte quelle che avrei affrontato dopo, al termine vinsi la medaglia della vita”.

Scritto nel destino.

Quella dura specialità, fatta di concentrazione, sudore, impegno, dedizione e tanta solitaria fatica sembrava scritta nel destino sin da ragazzino. In realtà, però, Abdon alla marcia ci arriva quasi per caso. Abdon era un vero atleta, un concentrato di energia, uno sportivo completo in grado di eccellere in ogni disciplina. Provò a frequentò la corsa campestre, guardò, quindi, alla boxe, tentò, infine, con il canottaggio e si spinse anche oltre, cimentandosi in molte altre categorie. Finisce a frequentare la palestra dello zio Cesare dove comincia a tirare pugni sul ring. Quell’esperienza è determinante, perché la boxe è uno sport duro che parla al cuore, che insegna a rialzarti ogni volta che vai giù, che ti spinge sempre a portare rispetto all’avversario e a te stesso. La boxe gli piace, ma non quanto vorrebbe. Per sfruttare al meglio le sue doti atletiche di prontezza e agilità, gli amici lo convincono a fare il portiere, ma stare fermo in piedi, tra due pali e una traversa, a difendere una rete proprio non fa per lui. La marcia gli si presenta per caso, una sera con gli amici al cinema. C’è un filmato della Settimana Incom su una gara di marcia, lunga e massacrante. E’ amore a prima vista. Pamich non resisterà al fascino antico e austero della disciplina più dura, più difficile e più sfiancante. E’ esattamente quello che cerca. Abdon prenderà a marciare e, da quel giorno, la sua vita cambierà.

La medaglia d’oro di Tokio.

Pamich diventerà uno dei più grandi atleti di sempre e parteciperà a cinque giochi olimpici. La gara  più bella ed esaltante rimarrà quella dei Giochi Olimpici di Tokio del 1964. Abdon parte fortissimo sfidando un’insidiosa pioggia e gli avversari. Il suo ritmo è elevato. Fa selezione. L’unico a resistere a quel forcing è l’inglese Nihill. Il marciatore azzurro tiene caparbiamente la testa della gara controllando ogni mossa dell’avversario. Al 38esimo chilometro, però, Pamich accusa forti dolori addominali che lo costringono a rallentare il ritmo. Nihill ne approfitta e cerca l’allungo. Quella furbizia non gli basterà, perché Abdon supererà brillantemente la crisi e nel giro di soli due chilometri lo andrà a riprendere tornando a guidare la gara. Il finale è da cineteca, perchè Pamich aumenta ancora di più il ritmo sino a lasciarsi alle spalle il forte marciatore inglese. Pamich è solo quando entra sulla pista dello stadio Olimpico di Tokyo tra l’ovazione del pubblico. Un lungo brivido scende lungo la schiena quando taglia il traguardo. Pamich stabilisce il nuovo record olimpico e vince una fantastica medaglia d’oro, la prima e unica dell’atletica italiana in quei Giochi.

L’indomabile spirito degli esordi.

Pamich continuerà a conquistare importanti allori. Nel suo ricco carnet ci sarà spazio per un bronzo all’Olimpiade di Roma, per tre assoluti nei Giochi del Mediterraneo e due titoli Europei. Nonostante il successo e il prestigio, Pamich rimarrà l’atletico e determinato ragazzino degli esordi. Marcerà in compagnia di quello spirito, profondamente felice di fare la cosa che più gli piaceva. Perché Abdon non ha mai corso solo per vincere o per un masochistico amore del sacrificio, come, invece, vuole la retorica. Molto più semplicemente, Pamich si sentiva bene quando lo faceva. Adorava le sfide e le imprese, si galvanizzava quando raggiungeva l’obiettivo, mai solo per strappare applausi quanto piuttosto per guardare avanti, per affrontare tutto quello che sarebbe arrivato dopo. Abdon ha frequentato un’era sportiva distante anni luce dall’interesse, dal professionismo, dal denaro e dalla sponsorizzazione conducendo con grande serenità una impegnativa doppia vita, lavorando di notte, andando su e giù per la penisola per una nota marca di carburanti, e allenandosi di giorno, preparando con scrupolo e attenzione le gare.

L’unico avversario da battere.

All’atletica ha dato moltissimo e dall’atletica ha ottenuto straordinarie gratificazioni, ma tutto questo non gli è mai bastato. E, oggi, a ottant’anni compiuti, Pamich marcia sempre, pedala parecchio, studia ancora e si è messo in mente di ricostruire la storia dispersa dello sport fiumano.”Il risultato ha rappresentato per me un punto di partenza e non di arrivo. Questa la filosofia che fin dall’inizio ha guidato la mia carriera agonistica. Finita una gara, pensavo già alla successiva, e tanto peggiore era l’esito, tanto più attendevo con impazienza la possibilità di mettermi alla prova, unico avversario da battere, me stesso, perché innalzare i propri limiti è molto più importante che vincere”