Once in a lifetime: Ralf Edström

Il 7 ottobre 1952 nasce a Degerfors, piccolo comune della contea di Örebro, in Svezia, Ralf  Edström, di professione calciatore. Alla sua introvabile figurina, quella con i capelli al vento e la maglia gialla della sua nazionale, si legano buona parte dei miei ricordi più lontani, quelli di un’estate di quarant’anni fa, una strana e fredda estate, quella del 1974, quella dei Mondiali di calcio tedeschi, quella “azzurro tenebra” di Valcareggi e Chinaglia, quella del calcio totale dell’Olanda di Cruijff e Neeskens, quella della Polonia di Lato e Deyna, della Germania Est di Sparwasser, quella, soprattutto, della Germania Ovest di Breitner e Beckenbauer. Ma anche, fatalmente, quella della Svezia di Ralf Edström.

Un’icona del suo tempo

Ralf era una punta pura, uno di quegli attaccanti vecchio stile che erano pericolosi anche quando stavano seduti al bar a farsi una birretta, uno di quelli che sapevano tagliare con una sola finta le linee avversarie seminando panico e scompiglio. Ralf era un talento naturale. Aveva tecnica, intelligenza, velocità, intuito, fiuto e senso della posizione. La sua altezza gli regalava il brivido di andare a caccia dei palloni più alti per schiacciarli in rete, il suo vigore atletico gli permetteva di risolvere i contrasti più ruvidi. In quegli anni Edström combina sfracelli con la maglia del PSV Eindhoven, segna gol a raffica e si guadagna per tre anni di fila la candidatura al “Pallone d’Oro” aiutando la sua squadra a conquistare coppe e titoli nazionali.

I Mondiali del 1974

In quei piovosi campionati tedeschi, la sua Svezia fece veramente bene. Questione di clima, forse. La nazionale allenata da Ericson era una squadra ordinata e ben disposta in campo, bilanciata, ostica, solida e robusta. Le diverse personalità che la componevano (da Kindvall a Larsson, da Nordqvist a Grahn) erano all’apice della carriera e assicurarono alla squadra sicurezza, maturità, esperienza e dimensione internazionale. Al primo turno la Svezia inchioda sullo zero a zero la sorprendente Olanda e strapazza l’Uruguay. Il sorteggio per la successiva fase non è purtroppo dei più favorevoli. La Svezia precipita nel “girone della morte”. Nel determinante match con i futuri campioni della Germania Ovest, gli svedesi dominano per tutto il primo tempo che chiudono in vantaggio proprio grazie ad una rete di Ralf. Nella ripresa i tedeschi dilagano e fanno piazza pulita di ogni ambizione. A quella squadra mancò davvero poco per entrare nella storia. Un punto, per un solo punto la Svezia buca l’accesso alla finale per il terzo posto, a cui, invece, approda la Polonia. Edström fu il protagonista assoluto di quel torneo segnando quattro reti in sei match, tutte alla sua maniera, di forza e di classe. Tra i tanti ricordi di quei pomeriggi quello che cerco di preservare con maggiore cautela riguarda la sua ultima partita, una memorabile Svezia-Jugoslavia disputata, per bizzarrie regolamentari, a giochi fatti, diverse ore dopo, cioè, che Germania e Polonia si erano già guadagnate gli accessi alla finale e alla finalina.

Quel pomeriggio a Dusseldorf

Nei fatti, quella era una partita che non aveva più niente da chiedere o offrire a quel torneo. Entrambe le squadre erano state eliminate solo qualche ora prima dal risultato di Francoforte. Eppure regalarono un meraviglioso spettacolo per il calcio e per lo sport. Svezia e Jugoslavia onorarono sino in fondo la manifestazione, affrontandosi a viso aperto come se stessero contendendosi il titolo assoluto. Finì due a uno per gli svedesi grazie ancora una volta ad Edström, che pareggiò la rete di Surjak, e a Torstensson che beffò Maric a pochi minuti dalla fine. Nel calcio che frequentavo, quello che filtrava in televisione o che ammiravo allo stadio sulle ginocchia di mio padre, gli ultimi minuti di gioco trascorrevano sempre lenti e svogliati. Ai miei occhi le partite finivano sempre con netto anticipo, lo stesso con cui mio padre Bruno abbandonava gli spalti dello stadio di casa. Tanto non succede mai niente, mi diceva nervosamente incollando, però, la radiolina all’orecchio. Così si sarebbero evitate le code, così si sarebbe potuto correre a casa in tempo per vedere Novantesimo Minuto. Quel calcio esigeva sempre una ferrea programmazione. Insomma, nel mio mondo quegli ultimi giri di lancetta erano solo l’attesa fatale e scontata della fine, l’inesorabile certificazione del risultato. Ma quel tardo pomeriggio televisivo nella mia vita irruppe una cosa del tutto inedita. Perché quel mio calcio difensivo, fatto di tanta convenienza ed opportunità, venne squarciato da agonismo e impegno. Quelle due squadre ormai eliminate giocarono senza risparmiarsi sino all’ultimo secondo cercando e sfiorando ripetutamente il gol. Al fischio finale ci furono solo sorrisi e abbracci. Fu una lezione, un segnale, uno dei tanti di quell’epocale competizione che cambiò volto non solo al calcio professionistico ma anche a quello che frequentavo nel campetto sotto casa. Quel pomeriggio il pallone aprì nuovi orizzonti, mi regalò intensità e forza, lasciandomi in eredità un piccolo prontuario di buone azioni, sogni e idee che, in seguito, avrei cercato di applicare, con alterna fortuna, anche all’esistenza. Nonostante l’alone degli anni, il tempo non si è portato via tutto. Se chiudo gli occhi rivedo ancora quelle ombre. Sono ancora lì ad agitare quell’incerto bianco e nero televisivo che faceva tanto casa e famiglia. Rivedo mamma e papà, la nonna e mia sorella, li vedo muoversi tra i piatti e le tovaglie, le pentole e il vapore acqueo che si alzava in verticale sui fornelli a sfidare la gravità. Quelle ombre sono ancora lì che scivolano leggere, proprio come faceva Ralf quando puntava l’area seminando i difensori per infilare un preciso rasoterra alle spalle del portiere avversario.