Once in a lifetime: Angelo Schiavio

Il 15 ottobre 1905 nasce a Bologna Angelo Schiavio, di professione centravanti. Tra il 1924 e il 1934, Angiolino divenne padrone del suo tempo e, soprattutto, di quello di milioni di italiani. Faceva il centravanti e sembrava disporre a piacimento delle timide difese avversarie. Era grintoso e tecnico al contempo, giocava per la squadra della sua città, l’unica che avrebbe mai considerato, e, ovviamente, faceva gol a raffica.

“Il Bologna che tremare il mondo fa”

Al calcio, Schiavio, ci arriva ancora ragazzino. A scuola va bene. La famiglia è contenta. Lui vuole fare il ragioniere. Fare di conto è una professione importante e rispettabile. Desidera una vita libera e indipendente. Il lavoro è la sua opportunità. Ma Angiolino è bravo anche con i piedi. Il calcio è un’attrazione troppo forte. E’ un gioco, ma è talmente bravo a vibrare colpi a quella palla che qualcuno gli suggerisce che potrebbe anche diventare il suo futuro. In quell’Italia degli anni venti tirare calci può anche diventare una professione ben remunerata. Pagati per divertirsi. Il massimo, pensa il giovane Schiavio. E’ combattuto. All’inizio l’idea del lavoro gli fa accantonare i campi e il fango, ma poi, però, quella magica sfera di cuoio ha il sopravvento. Indossa sin da subito la casacca rossoblu e si dimostra talmente forte e prolifico da meritare subito la prima squadra. Con lui in prima linea a guidare l’attacco, il Bologna “tremare il mondo fa”. Vince quattro campionati, alza per ben due volte la Coppa Mitropa, che era coppa vera e non quella sottospecie di torneo delle decadute che divenne qualche decennio più avanti, e conquista addirittura il Torneo Internazionale dell’Expo Universale di Parigi, istituito per celebrare i fasti dell’esposizione parigina e che passerà alla storia per essere stata la prima competizione internazionale ad aver ospitato una squadra inglese. Il modo con cui Schiavio stava in campo era uguale a quello con cui prendeva la vita. Di petto e senza paura, con coraggio e umiltà, lottando su ogni pallone al limite anche del fallo, entrando duro in ogni contrasto, senza tirare mai indietro il piede. Angelo caricava i difensori come un bufalo nella prateria, si trascinava il pallone tra le gambe tenendosi in scia zolle e schizzi di fango e resistendo ad ogni sorta di  pressione e spinta. Alla fine, per quanto dolorante, riusciva sempre a rimanere in piedi almeno per il tempo necessario a depositare la sfera in fondo al sacco. Angelo rimarrà sempre quel giocatore caparbio e coraggioso, un vero gladiatore dell’area di rigore. Rimarrà in rossoblu tutte le sue 16 stagioni professionistiche, mettendo insieme 364 presenze e 250 reti. Rimarrà una persona semplice e di gran cuore, fiera e determinata, generoso e di grande spirito.

Figlio di un febbrile entusiasmo

Angiolino aveva dalla sua una sorta di febbrile e contagioso entusiasmo, un’estrema tenacia che riusciva sempre a galvanizzavare i compagni e il pubblico sulle gradinate. In campo mostrava carisma e carattere, anche quando le cose andavano storte, anche quando prendeva botte tremende. Era come rispondere ad un imperativo categorico, perché lui non abbandonava mai il campo nemmeno quando si rompeva un piede. In quel calcio antico non c’era ancora spazio per l’invenzione delle sostituzioni e il giocatore infortunato finiva per rimanere comunque in campo relegato sulla fascia a camminare. Una sofferenze atroce. A differenza di molti suoi colleghi, Schiavio, però, in queste occasioni, non rinunciava a giocare. Stringeva i denti, mormorava un intenso rosario di imprecazioni e rimaneva al suo posto in campo. Il leggendario gol che regalò all’Italia di Vittorio Pozzo i mondiali del 1934 a spese della fortissima Cecoslovacchia nacque proprio in un frangente simile. Un gol epico, non foss’altro per la circostanza che Schiavio, da diversi minuti, era gravemente infortunato ad un gamba e faticava anche solo a reggersi in piedi trascinandosi lentamente sulla fascia destra. I compagni lo incitavano. Lui era preoccupato. Probabilmente quel gonfiore significava frattura. Il piede faceva male in qualsiasi posizione fosse. Angiolino stringeva i denti. Avrebbe sofferto sino alla morte ma sarebbe rimasto in campo con i suoi compagni, almeno a fare numero.

Quel gol di dolore

Nel pieno di un furioso e teso supplementare, Guaita riceve palla da Meazza e avanza velocemente in verticale sino a spingerla nella stessa fetta di prato dove da diversi minuti incrocia zoppicando l'”Anzlein” in compagnia di una eloquente smorfia. Angiolino potrebbe tranquillamente lasciare andare quella palla al suo destino, potrebbe mandare tutti al diavolo e andarsene a cercare un medico che lenisca quello stramaledetto dolore. Nessuno avrebbe mai avuto nulla da dire. Nessuno gli avrebbe mai rimproverato niente. Qualcuno dei compagni redarguisce addirittura Guaita, reo di aver spedito la palla nella sua direzione. Sarebbe stato solo un pallone regalato agli avversari. Nessuno in campo, però, immagina cosa sta per accadere. Perchè Schiavio è uno tosto, e per quanto stia soffrendo non ha alcuna intenzione di regalare quel dannato pallone agli avversari. Così, nonostante il dolore acuto che sale ad ogni falcata e lo stomaco che gli si serra in uno spasmo, Angiolino scatta legnosamente in avanti assieme a quella lama che gli sta trafiggendo il piede. Compie uno, due, tre piccoli passi, quelli strettamente necessari per arrivare in qualche modo sulla sfera che rimbalza dolcemente sulle zolle, chiude gli occhi in un ultimo sforzo e carica il destro come se, oltre alla palla, potesse spazzare anche il dolore e quell’affanno. Con una prodezza balistica di rara bellezza il giocatore bolognese infila uno sbigottito Planicka. Schiavio non fa nemmeno in tempo a vedere la sfera che si infila in rete. Avverte solo il boato della folla e crolla a terra perdendo conoscenza per l’acuta fitta. E’ proprio grazie a quella prodezza di ostinata caparbietà che l’Italia sconfigge la Cecoslovacchia e conquista il suo primo alloro mondiale. Nel nome di Schiavio, della sua determinazione e di tutto il suo dolore.