Once in a lifetime: Norman Hunter

Il 29 ottobre 1943 nasce a Gateshead, profondo nord inglese, Norman Hunter, di professione calciatore e allenatore. Hunter è stato per un buon decennio il calcio britannico. Ne ha incarnato, per buona parte degli anni Sessanta e per il decennio successivo, il lato più duro e deciso. Il suo nome e, soprattutto, il suo ruvido tackle incutevano terrore tra le punte avversarie. Perché Norman non era solo un capace ed arcigno difensore ma anche una sorta di mastino a cui era difficile scampare. Norman non era un’eccezione, perché il suo calcio era quello predicato dalla maggioranza degli allenatori dell’epoca, era il paradigma e l’essenza dello scontro fisico, dell’agonismo e della cattiveria. Il suo calcio era il meglio di quanto rotolava sul fango dei leggendari campi inglesi.

Una vita presa a calci

Hunter non prendeva a calci solo la palla, ma, sovente, anche la vita e le gambe degli avversari, quantomeno di quelli che non si erano dimostrati lesti nel sottrarle ai suoi micidiali colpi. D’altro canto, quel calcio lo si giocava così, palla lunga e pedalare, senza tante questioni. Si correva non solo per lasciarsi alle spalle l’avversario ma anche per evitare pericolosi grattacapi. Si correva per sottrarsi alla guardia del difensore, per salvare gli stinchi e mettersi in salvo. Correre via, agili come il vento, era l’unico modo per sfuggire a terreni impossibili e agli scomposti insulti di gradinate infuocate. Correre significava salvare le gambe e un’onorata carriera. Norman non tollerava tutta quella mobilità. Lui stava dall’altra parte. Perché Norman correva solo per inseguire e intercettare l’attaccante avversario. In quella veste divenne un assoluto protagonista del pacchetto difensivo. Vestì la bianca casacca numero sei del “Dirty” Leeds per quattordici lunghi anni, durante i quali vinse ogni trofeo, spedendo in tribuna migliaia di palloni e in infermeria altrettante caviglie e ginocchia. L’esordio lo aveva visto attaccare, ma quel suo fisico piantato, quella forza e quell’ostinazione che metteva in ogni contrasto, gli avevano rapidamente guadagnato il ruolo di marcatore. La vita gli aveva affidato l’ingrato compito di spezzare poesia e creatività e lui lo aveva assolto con diligenza e determinazione.

Un killer

In campo Norman era una forza della natura: non levava mai il piede nei tackles, mirava sempre in basso colpendo quello che trovava. La sua era una questione di temperamento. Norman non mollava mai ed era pure disposto a tutto pur di impedire all’attaccante avversario di inquadrare la porta nel proprio mirino. Quest’ultima specialità gli valse l’accesso nella top ten dei giocatori più duri e scorretti di sempre, un merito condiviso con altri ben noti “macellai” del calibro di Andoni Goicoechea, Dave Mackay, Stuart Pearce, Roy Keane e il nostrano Romeo Benetti, tutta gente che porta sulla coscienza decine di falli da codice penale. Norman era la colonna difensiva del “dannato” United di Don Revie, quello che giocava sporco e duro, quello che intimidiva gli avversari ancora prima di scendere in campo, quello arrogante e scortese che commetteva decine di falli e faceva collezione di cartellini gialli e rossi, quello che non badava troppo allo spettacolo o allo stile, quello che però faceva sempre risultato schiacciando gli avversari nel fango delle aree di rigore. Quel Leeds di Billy Bremner, Johnny Giles, Jack Charlton, Peter Lorimer, Norman Hunter e Allan Clarke vinse il titolo della First Division nel 1969 e nel 1974, la Coppa d’Inghilterra, la Coppa di Lega, e due trofei Europei ed entrò nella storia.

Il dramma dell’eliminazione

Norman arrivò anche in Nazionale. Lo chiamò Ramsey ma lui comprese subito che avrebbe fatto panchina e si rassegnò a fare da riserva al grande Bobby Moore. In quell’ingrato ruolo ci vinse pure un Mondiale senza mai scendere in campo. Al ritiro di Bobby Sir Alf lo sostemò stabilmente al centro del reparto difensivo. Hunter scese finalmente in campo con la maglia bianca della sua Nazionale. C’era anche lui nella tragica partita di Wembley dell’ottobre 1973, quando l’Inghilterra perse la faccia e la qualificazione ai Mondiali tedeschi del 1974 per merito dello squadrone polacco di Deyna, Lato, Gadocha, Domarski e Kasperczak. Quella partita divenne un incubo per un’intera nazione. “In vita mia non ho mai giocato una partita a una porta sola come quella”, disse anni dopo Hunter. Quella con la Polonia era l’ultima spiaggia. Serviva, infatti, una vittoria per guadagnare l’accesso alla fase finale del campionato del mondo, ma non ci fu storia. Gli inglesi calciarono nello specchio della porta per ben 36 volte, presero in due occasioni anche i pali di legno e in quattro clamorose circostanze videro spazzare via quel maledetto pallone dalla linea di porta. Buona parte del merito fu anche dell’ipnotico maglione giallo di Tomaszewski. Le cose, fatalmente, finirono per complicarsi. Toccò proprio a Norman farsi scappare sulla fascia sinistra quell’indemoniato genietto di Lato. Il traversone della punta polacca consegnò la palla a Domarski che spedì da oltre venti metri un velenoso rasoterra alle spalle di Shilton gelando la notte di Wembley. Il pareggio arrivò solo diversi minuti più tardi, grazie ad un calcio di rigore battuto da Clarke. Finì uno a uno, e Norman Hunter e l’Inghilterra di Alf Ramsey rimasero, per la prima volta della loro storia, a guardare i Mondiali da casa, comodamente seduti davanti alla televisione.