Once in a lifetime: Peter Collins

Il 6 novembre 1931 nasce a Mustow Green, piccolo centro nei dintorni di Kidderminster, nella contea del Worcestershire, Peter John Collins, di professione pilota automobilistico. Il mondo del giovane Peter è coinciso con quello delle prime corse motoristiche e con lo spartano perimetro dei box, con le latte d’olio, i fumi, i rumori, i gas di scarico e lunghi nastri di terra battuta al cospetto di case, prati e un timido cielo grigio.

Un mondo di pionieri

Era un mondo di pionieri e grandi piloti, quello stesso che scorreva a tutta velocità sotto le ruote di Fangio, Moss, Brabham, De Portago e Castellotti. Nell’assordante rumore di pistoni, turbine e testate, Peter ci era cresciuto. Il padre lo aveva portato con sé al lavoro sin da quando aveva compiuto due anni. In quella rimessa, che la modernità avrebbe poi trasformato in una concessionaria della Ford, Peter ci aveva giocato, aveva rincorso qualche sogno ed, infine, era venuto grande. Senza coltivare grandi speranze, peraltro, ché quell’arte era solo un’azzardo povero e oleoso. Dal banco prova dei motori, Peter si era così messo al volante di qualche vettura di risulta. Un po’ per gioco, un po’ per noia. Da lì alle prime gare il passo era stato estremamente breve. In poco tempo era diventato un pilota promettente, veloce e magnetico, dotato di naturale carisma e di un’impronta leggera ed elegante. Il giovane Collins sembrava, infatti, uscito da qualche stabilimento di posa di Hollywood e pareva respirare la stessa aria sottile delle adorate stelle di quella “fabbrica dei sogni”. Ma, soprattutto, Peter vinceva gare su gare. Collins si faceva notare sempre, comunque andasse a finire in pista, perché rapiva e rassicurava, perché pareva un uomo sincero a caccia di gloria e di risultati, perché era alto, biondo ed elegante. Ma, in realtà, sotto quelle pose gentili e affabili si celavano gli affilati artigli di un lupo solitario, umorale e distaccato, in costante lotta con la tentazione di una severa misantropia. Ai box Peter parlava poco. Quando gli toccava farlo con i meccanici o i commissari, lasciava il segno, affilato e tagliente, come un bisturi. Ma se poi si accomodava nell’abitacolo delle monoposto quelle ombre lasciavano spazio a un pilota empatico e aggressivo, nervoso e imprevedibile, caustico e cinico. Peter possedeva una dote preziosa, perché, come Fangio, aveva alle spalle un solido bagaglio professionale. Era stato un meccanico prima che un pilota ed era entrato in confidenza con ogni singola parte delle vetture che pilotava. Riconosceva in un solo istante ogni genere di problema. Avvertiva a pelle le incertezze dei giri motore, distingueva sin dalla prima curva l’inadeguata regolazione di molle e ammortizzatori, intuiva il prossimo cedimento della sospensione dalle irregolari vibrazioni del volante. Collins riconosceva al volo i limiti dei bolidi che pilotava, ma, ciò nonostante, non si tratteneva dal tentare di superarli.

L’avventura con la scuderia del Cavallino Rampante

Furono probabilmente queste singolari caratteristiche o, forse, quel temperamento passionale a convincere il Drake ad offrirgli un buon volante. Ne nacque un sodalizio stabile e produttivo, anche perché Ferrari non faceva mistero della segreta passione per i piloti britannici. Pur di strapparlo alla concorrenza Enzo si spinse addirittura ad offrirgli una fiammante Lancia Flaminia 250GT. Seguirono tre anni di altissimo livello, con due vittorie, buoni piazzamenti e rincorse galvanizzanti. Poi, la corda che lo legava al Drake entrò in fatale tensione. Il clima interno di esasperata rivalità cominciò a produrre i primi amari frutti e i calendari vennero scanditi da ritiri, discussioni ed una lunga teoria di silenziosi e striscianti scontri con Ferrari, Musso ed Hawthorne, candide e inconsapevoli vittime di un tempestoso turbine. La posta in palio era troppo alta. Non ci sarebbe mai stato spazio per tregue o fragili compromessi, perché, banalmente, quello era l’unico modo di concepire la gara e l’esistenza stessa.

Un vero gentleman

Malgrado il montare di tutte quelle tensioni, Collins rimase sempre fedele ad un severo codice etico. Come quando nel 1956, durante il Gran Premio d’Italia a Monza, nonostante fosse ancora in piena corsa per il titolo, cedette, cavallerescamente e per amor di scuderia, la propria vettura (all’epoca il regolamento lo permetteva) al compagno di squadra Fangio, che lo precedeva solo di qualche punto in classifica, per permettergli di concludere al secondo posto, dietro Moss, e conquistare così il suo quarto titolo iridato.“E’ più giusto che sia tu a vincere questo mondiale, io sono giovane e avrò altre occasioni“, disse a Juan Manuel al momento dello scambio. Ma purtroppo al giovane e veloce Collins un’occasione così ghiotta non si ripresentò mai più e, così, solo due anni più tardi, il 3 agosto 1958, in una spietata stagione di lacrime e dolore, il destino bussò a reclamare il saldo dei conti ancora in sospeso. La Ferrari numero due esce rovinosamente di pista al Pfartzgarten, lungo il temibile tracciato del Nurburgring, cappotta e trova sulla sua strada il robusto tronco di un albero secolare. Peter Collins muore sul colpo senza aver conquistato nemmeno un titolo mondiale, anche se, quello del 1956, almeno moralmente, gli appartenne di diritto. Si lasciò alle spalle rivali, lacrime e un vuoto davvero incolmabile. Oltre alla moglie Louise, al collega Mike Hawthorn e al Drake, lo piansero davvero in molti. Peter uscì così dal mondo delle piste ma entrò, suo malgrado, nella storia e nella leggenda.