Once in a lifetime: Adolfo Pedernera

Il 15 novembre 1918 nasce a Buenos Aires Adolfo Pedernera, di professione calciatore. Ogni tanto, ogni dieci o venti anni ne nasce uno. La storia vuole che respiri l’umidità di piccole case umili e dignitose, che cresca nella polvere delle periferie e che inizi a rincorrere i propri sogni nei fazzoletti di terra strappati al progresso dove l’unica cosa che conta è tenere la sfera il più a lungo lontana dalle scarpe e, soprattutto, dai calci degli avversari. Ogni dieci o venti anni ne nasce uno di veramente speciale, uno con il “dono”, uno in grado di fare ciò che vuole con un pallone, uno che, anzichè correre, danzi, che, anzichè dribblare, scherzi, che, anzichè giocare, sogni. Un genere così speciale di giocatore nasce ogni dieci o venti anni dall’altra parte dell’oceano, lungo la magica verticale che taglia in due il continente sudamericano, tra sole e vento, tra Brasile, Uruguay e Argentina.

Innamorato della “bola”

Quando vide per la prima volta la luce del giorno i campi di battaglia della Vecchia Europa ancora fumavano. L’Argentina era, da tempo, diventata la terra dei sogni, distante miglia marine da tutto quell’orrore, dalla fame e dagli stenti. Era l’ancora di tanti esuli e immigrati, di anime in fuga alla ricerca di qualcosa. Il piccolo Adolfo quel qualcosa lo trovò rapidamente, nel giro di soli pochi anni, quasi in un giro di lancette. Si presentò naturalmente al suo cospetto rotolando e rimbalzando. Con quel pallone il piccolo Adolfo avrebbe fatto qualsiasi cosa. Se lo sarebbe portato anche a letto, sotto le coperte, lontano da quella vita difficile. Crescendo, lo avrebbe pure depositato nelle maglie intrecciate delle reti avversarie, che si gonfiavano alle spalle di sbigottiti e stralunati portieri. Crescendo, Pedernera sarebbe diventato un asso, un autentico fuoriclasse, un calciatore che, a giudicare da come giocava, sembrava provenire da un altro pianeta.

La “delantera” de “La Maquina”

Pedernera, il “ballerino”, era la quintessenza del fùtbol. Guidava la mitica “delantera” del River Plate, l’arrembante linea d’attacco composta da Juan Carlos Muñoz, José Manuel Moreno, Angel Labruna e Felix Loustau. A dire il vero, gli storici componenti della temibile “Maquina” non giocarono quasi mai tutti assieme. Non più di diciotto partite in cinque anni: poche ma del tutto sufficienti a farli entrare nella storia come una delle pagine più esaltanti di sempre. Giocavano in un mondo nuovo, mai visto prima. Il nome di battesimo fu opera di un noto “periodista”. Borocotó raccontò infatti dalle colonne di El Grafico il rapimento di quei movimenti, quei rapidi e brucianti spostamenti dei giocatori che tanto gli ricordavano una macchina, una perfetta teoria di ruote e ingranaggi che andavano all’unisono e alla stessa velocità. Quel gioco inusitato era opera due singolari personaggi, di un visionario maestro di tattica e di una vecchia conoscenza italiana. Il calcio di Carlos Peucelle e Renato Cesarini era un radioso esempio di “calcio totale” ante litteram, con dieci uomini  in campo pronti a spostarsi compatti e aggressivi in tutte le zone. Con Pedernera e compagni, il River regalò il calcio alla modernità. Quel perfetto equilibrio di forza, corsa e tecnica masticava spazi e profondità e non dava riferimenti agli avversari, sconcertati da tutta quella forsennata frenesia di scambiarsi ruoli, uomini e, soprattutto, palloni.

Il futuro

“La Maquina” seminò calcio e spettacolo per un lustro, almeno fin tanto che Pedernera, il “pianista”, calcò il prato verde del Monumental. Poi, toccò ad un futuro ancora più ammaliante. Perché nelle giovanili del River un giovane talento scalpitava chiedendo spazio. Il River provò a tenere quel mirabile giocoliere tra le riserve, ma non per molto. Quando Di Stefano scese finalmente in campo, era ormai tempo di girare pagine e Pedernera, che aveva allenato l’astuzia al pari dell’abilità tecnica, comprese che il suo tempo era finito e decise di trasferirsi altrove, giocando ancora per quasi dieci anni. Nonostante altre maglie ed altri stadi, per tutti Adolfo rimase però il trascinatore del River, il perno di quella squadra dei sogni, la boa di mezzo nonchè il condottiero con la fascia al braccio, colui che chiedeva e otteneva sempre rispetto. Pressing asfissiante, veloci ripartenze e caterve di gol fecero entrare quello squadrone nella leggenda. Di quello schema Adolfo  rappresentava il punto più avanzato, quello che aveva il compito di infrangere certezze e pregiudizi. Toccava a lui, infatti, abbandonare l’area di rigore per rientrare a centrocampo trascinandosi dietro il diretto marcatore e regalando ampi spazi ai suoi veloci compagni di reparto. Pedernera compensava un fisico gracile e minuto con una grandissima tecnica ed una superba visione di gioco, giubilata spesso da lanci millimetrici e precisi. Il suo talento lasciò traccia sia in campo che fuori, dove fu sempre rincorso da cronisti, amori, indiscrezioni e applausi. Anche in questo Alfredo accarezzò non solo il suo tempo ma anche quello che sarebbe arrivato. Disse di lui il suo erede Alfredo Di Stefano, la saeta rubia: “Se chiedete a me che cosa penso quando chiudo gli occhi e sussurro nella mia mente la parola ‘fùtbol’, vi diró che la mia testa non risponderà, mentre il mio cuore penserà sempre e solo ad una persona: Adolfo Pedernera. Lui per me è stato un maestro. È stato il calcio. Tutto questo, lo devo a lui. Il calcio lo veneri, sempre; perché così non ne incontrerà mai più”.