Once in a lifetime: Osvaldo Pugliese

Il 2 dicembre 1905 nasce a Buenos Aires Osvaldo Pugliese, futuro pianista e compositore. Contrariamente a quanto si pensa, il tango non ha mai avuto né padri nobili né padroni. Il tango era nato dal nulla, dallo scherzo di un vezzo, dal soffio di una serata, da un pensiero sordo e lontano. Quella musica fatta di curve e sinuosi tornanti catturò sin da subito il sentimento collettivo e compose un mirabile intreccio di passione e lirismo, nostalgia e sensualità. Perché il tango non era solo musica e movimento. Era una specie di racconto corale o, come scriveva Borges, “l’ombra di un pensiero triste messo in musica”. Tra quelle sospensioni in chiaroscuro si agitavano la storia e il tempo, radici lontane e ricordi. Testimoniava un modo di essere, di vedere e di sentire le cose del mondo. Aveva natali randagi e incerti, fiato lungo e grandi polmoni. Nessuno avrebbe mai pensato che quell’umore migrante avrebbe celebrato alterne stagioni prima di essere salutato come lo spirito di un’intera nazione. Perché il tango divenne un idioma fisico e recitato, un codice ed uno schema di rappresentazione della realtà, un patto sociale da stringere in barba a miseria e nobilità.

Un uomo del rinascimento

Pugliese, assieme al bandoneon Anibal Troilo, fu protagonista di una delle più belle stagioni del tango, quella del suo rinascimento. Osvaldo ebbe, infatti, il merito di recuperare la grande tradizione delle origini proiettandola nel futuro nell’ambito di una continua evoluzione stilistica. Perchè il tango, che si sviluppa alla fine dell’ottocento sul Rio de La Plata, è cosa seria, mica uno scherzo da cartolina o un passatempo acrobatico a cui il disimpegno europeo lo derubricò frettolosamente. Il tango era innanzitutto una questione di stile e cultura, era un pensiero politico, un ibrido musicale in aperta progressione che arrivava da lontano e che masticava diverse desinenze e linguaggi popolari come la milonga, l’habanera, il candombe. Il tango era tutto questo ed anche molto di più.

Una questione di passi e posizioni, di diritti e libertà

Il tango è una sorta di coreografia mulatta perennemente alla ricerca di una musica adeguata alla complessità dei passi e delle posizioni. Pugliese ne è il suo figlio prediletto. Osvaldo con quella musica ci era cresciuto: l’aveva sentita, apprezzata, sognata. Il merito era stato di suo padre Adolfo, calzolaio con la passione per il flauto, e dei suoi fratelli violinisti. La sua vita cambiò improvvisamente direzione quando in casa entrò un pianoforte, strumento  per il quale aveva mostrato una decisa seppur timida inclinazione. Adolfo lo affidò alle abili mani del maestro Vicente Scaramuzza che riconobbe e stimolò tutto quel talento. Solo un anno più tardi Osvaldo comincia a esibirsi in trio e, quindi, di lì a breve, con l’Orquesta della bandoneonista Francisca “Paquita” Bernardo. Poi, nel 1919, arriva finalmente anche il Conservatorio di Villa Crespo. Da lì in avanti la sua sarà una lenta ma costante ascesa. Osvaldo entrerà nel cuore della gente per la grande abilità compositiva e il piglio moderno della sua scrittura, grazie a cui regalerà tante piccole gemme come “La Yumba”, “Recuerdo”, “La Beba” e “Adiós Bardi”. Non farà mai mistero di quel suo modo accorato di dare anima e corpo alle note del pianoforte. “La cosa importante è conoscere le correnti che ci conducano al porto del cuore della gente. Il tango deve essere sempre interpretato nei termini delle emozioni umane. Ha una voce umana. Per quel motivo dobbiamo produrre un suono che esprima esattamente quelle emozioni”.

Un “martillero” del pianoforte

Ma Pugliese diventerà importante più del Sol de Mayo per via del costante impegno civile e politico che profuse con coraggio nel suo lavoro e che pagò più volte con il carcere. Perchè Osvaldo era un idealista, un “martillero”, un operaio al servizio della musica popolare, e non si girava dall’altra parte quando incrociava soprusi e ingiustizie. Quando, per via delle sue posizioni radicali e intransigenti, finiva dietro le sbarre negli anni del regime Peronista, l’Orchestra Pugliese andava comunque in scena, fieramente e senza paura. In scena, al suo posto e in sua vece, c’era sempre un garofano rosso platealmente adagiato sulla tastiera richiusa del suo pianoforte a coda. Fu proprio su quel garofano e quelle “rumorose” assenze che il suo mito andò consolidandosi negli anni sino a trasformarlo in un’icona e in un simbolo. Quando i generali presero con la forza il potere negli anni settanta il primo provvedimento che adottarono fu la messa al bando dei suoi brani. Perché quel silenzioso e fiero carisma faceva paura quanto e più delle sue scelte. La musica di Pugliese resistette a tutto, alla censura, alle sbarre, alla segregazione e all’abbandono. Osvaldo divenne un fenomeno di culto e, per molti decenni, i suoi brani vennero suonati e ballati clandestinamente in tutti i barrios della capitale come un manifesto di gioia, libertà e bellezza. Anche per questi motivi, Pugliese è oggi considerato il principale padre del tango moderno, l’innovativo artefice della sua diffusione, colui che lo ha saputo valorizzare, facendolo uscire dalla penombra delle balere per condurlo trionfalmente sin sotto le luci dei grandi palcoscenici nazionali. Pugliese rimarrà alla storia come l’indiscusso poeta che seppe esaltare le sue profonde radici culturali ed i contenuti più appassionati. Se ne andò in punta di piedi il 25 luglio 1995 senza riuscire a tagliare il traguardo dei novant’anni e senza smettere mai di pensare agli altri e alla sua gente. “Il mio maggiore maestro” disse in una delle sue ultime interviste “è stato e sarà sempre il mio paese”.