Once in a lifetime: Giovanni Arpino

Il 10 dicembre 1987 muore a Torino Giovanni Arpino, di professione scritttore e giornalista. Arpino era un autore straordinariamente eccentrico. Sfuggiva ad ogni etichetta e se ne faceva quasi vanto. Era e si sentiva un’anima riluttante e laterale, uno di quei personaggi a soggetto che viene mandato in scena per ricoprire ruoli defilati, in disparte rispetto al movimento centrale, ma che poi risulta determinante per l’equilibrio dell’opera. Guardava il mondo da quel suo privilegiato punto di osservazione, ne indagava le insondabili traiettorie, ne saggiava la dimensione più tangibile, umida e materiale, perché, poi, di questa si nutre il quotidiano, di anime perse e fluttuanti alle prese con problemi ordinari, questioni talvolta meschine e annoiati affanni.

Un’ironia malinconica e inquieta

Arpino respirava una malinconica inquietudine che sapeva spesso volgere in distaccata ironia. Era un’anima ostinata cresciuta tra le pagine di Vittorini, Hemingway e Steinbeck, diventato adulto imparando a governare in mare aperto, lontano da comodi approdi, scuole o correnti. La sua scrittura amava l’avventura e il rischio. Per questo era inviso alle elite culturali della sua epoca che lo trattavano con sufficienza, talvolta anche con malcelata sopportazione. Apparteneva a tutti e a nessuno, come i veri outsider. Era questo suo moto libero e indipendente a permettergli di muoversi con agilità e sagacia sabauda tra generi e registri diversi a dispetto della facile catalogazione e dell’accademia. Giovanni era un fine letterato prestato al giornalismo. Interpretava il suo compito con distacco ieratico e grande passione: il primo lo riservava agli affanni e ai tanti incerti della professione, la seconda finiva per permeare ogni suo scritto. Arpino non dava le notizie, le commentava piuttosto, le lavorava ai fianchi, ne scavava l’intima essenza con devozione antropologica e rigore narrativo. E il suo punto di vista risultava sempre originale, sornione e disincantato.

Fuori tema

I suoi libri, come i suoi articoli, sembravano il prodotto di un mondo parallelo dove tutto era permesso, anche il lusso di uscire dal tema. Quella sua specialità sembrava essere il frutto di un infanzia in movimento. Giovanni era, infatti, nato a Pola, ma poi si era trasferito in Piemonte, a Bra per approdare infine a Torino. Le lettere furono la prima vera passione. Amava lo stile asciutto e ironico, riflessivo e pacato. Lo applicava a tutti i generi che frequentò nel corso degli anni, al dramma come al racconto, al saggio come alla novella per i più piccoli. Con quel carattere sobrio e ombroso che si ritrovava non si montò mai la testa. Eppure vinse una pioggia di premi e riconoscimenti, dallo Strega, che si era aggiudicato nel 1964 con “L’ombra delle colline”, al Campiello, conquistato sia nel 1972 con “Randagio è l’eroe” che otto anni più tardi con “Il fratello italiano”. Tra i tanti suoi meriti ci fu anche quello di far conoscere in Italia la penna caustica ed elegante di Osvaldo Soriano, scrittore nobile di anime e fughe, come lui prestato alle redazioni giornalistiche e alla grande corrida del bel calcio.

“Azzurro Tenebra”

Dalle pagine dei più grandi quotidiani nazionali Arpino si occupò spesso di cronaca, sport e cultura. Su tutte una cosa fu la più speciale, il calcio e la passione che evocava. Come molte grandi firme di quell’incredibile stagione, Arpino ha scritto di football per raccontare altro, per infiltrare temi sociali e di costume, per sorvegliare le traiettorie dell’animo umano, i suoi splendori e le sue miserie. Al pari dell’amico Soriano, nelle sue mani il mondo del pallone diventò una magmatica metafora, un intreccio di storie straordinarie, di trame impalpabili che sapeva tessere con il talento e maestria da artigiano. Nel suo più celebre romanzo calcistico,”Azzurro Tenebra”, Giovanni inventò addirittura un genere a cavallo tra cronaca fantastica e realtà aumentata. Arpino prese infatti a pretesto la disastrosa spedizione della nazionale italiana ai Mondiali tedeschi del 1974 per rileggere le incerte prospettive del paese e raccontare il declino umano e morale di un mondo, quello del calcio, già in profonda trasformazione e quasi prossimo all’oblio etico che si andava materializzando sotto un orizzonte inquieto e plumbeo, oscuro e ferroso. Morì prematuramente, a soli sessant’anni, per il male del secolo che gli si presentò aggressivo e puntuale alla soglia della maturità senza concedere nemmeno un seppur breve rinvio. Giovanni avrebbe certamente meritato più tempo per correre finchè avesse avuto fiato, per proseguire in quel lungo viaggio, per dare gambe e polmoni a ragionamenti sornioni e disincantati, ad analisi eleganti e riflessioni brucianti, a “pensieri ampi, assoluti, superbamente inutili rispetto alla nostra realtà così putrida». Arpino rimase sempre fedele alla sua missione, sino ai suoi ultimi giorni ed ai suoi ultimi pezzi, che risuonarono potenti e gravi come un commiato severo e laico. “Un narratore di storie è un uomo che lavora con umiliazione e con angoscia, e che per sentirsi vivo bracca nel caos della realtà le storie che gli somigliano, e che fa sue.”