Once in a lifetime: Lester Bangs

Il 14 dicembre 1948 nasce a Escondido, California, Leslie Conway Bangs, di professione critico musicale e musicista. Per tutti coloro che si sono occupati di musica dalle pagine di riviste, periodici, blog o fanzine cercando parole affilate come lame, Lester è stato un saldo punto di riferimento. Non tanto per la breve e dissoluta esistenza assurta nel corso degli anni al rango di paradigma estetico, quanto piuttosto per il potente immaginario che ha veicolato, per la straordinaria densità della scrittura, la liricità delle visioni, lo spleen urbano e caotico e, soprattutto, la cruda e spietata onestà con cui ha interpretato il ruolo del critico musicale, figura sempre più rara in questo paese dove sedicenti cronisti svendono quotidianamente le proprie valutazioni al misero prezzo di qualche accredito per il prossimo concerto. Il mondo di oggi non sarebbe piaciuto a Lester. Un universo artistico dove chi deve esercitare con rigore analisi e riflessione abdica invece alla propria funzione per nascondersi nell’ombra di comode, cordiali e aeree relazioni interpersonali lo avrebbe letteralmente disgustato.

L’immortale icona di un lucido profeta

Grazie anche al suo nutrito bagaglio di oscuri fantasmi, Lester aveva letto la fine ben prima di viverla, aveva contato i giorni a tutte le promesse non mantenute ed a quel mondo che stava velocemente trasformandosi in un prodotto di massa per comode trasgressioni vicarie. Aveva smascherato le piccole e grandi truffe del rock’n’roll senza mai perdere la propria vena caustica, senza indulgere o favorire nessuno, nemmeno i suoi pochi e fragili idoli. Lester aveva creduto in quel mondo di frattura e lo aveva raccontato nell’unico modo possibile, usando non solo la testa ma anche il corpo e le emozioni. Si era commosso davanti alle esibizioni più rumorose e agli esperimenti più avventati, alle traiettorie più volubili e agli azzardi, alle cadute e ai fallimenti. Aveva colto tutta la straordinaria bellezza di quegli effimeri passaggi, la potenza epica di quello sbattere di lame, l’importanza decisiva di intrecci narrativi e intellettuali che facevano a brandelli certezze e convinzioni. Aveva avvertito che su quel confine si sarebbe combattuta una determinante battaglia tra forma e sostanza, immagine e consumo. Lester aveva fatalmente compreso le derive pop e i discutibili approdi dell’industria dello spettacolo. Non si arrese mai all’idea che quel suo grande amore sarebbe potuto diventare un mestiere da onesti ragionieri. Per lui il rock sarebbe sempre rimasto contenuto e messaggio, stile e irregolarità, trasgressione e visione, una sintassi organizzata per combattere l’omologazione e il perbenismo, un’arma per conquistare una nuova effimera prospettiva da vivere fino in fondo senza compromessi, costasse quel che costasse.

Il coraggio della scrittura

Lester non era un giornalista come tanti altri. Stando agli amici più prossimi, non era nemmeno un musicista. Sembrava piuttosto l’inquieta coscienza critica di una stagione culturale che aveva disperso al vento del cambiamento tutte le sue vane promesse. Lester cambiò raramente stile o opinione. Rimase sempre fedele alle proprie convinzioni, all’idea di fondo, alla lucidità di scelte e pensieri e alla capitale intuizione di non credere mai a miti ed eroi posticci, soprattutto se raccontati solo dalle veline delle discografiche. Bangs rimase sempre se stesso, un qualsiasi scrittore gonzo di provincia che si portava appresso solo poche cose: talento, funambolismo e acrobazia. A differenza di molte firme della sua epoca, Lester aveva dalla sua il coraggio della scrittura, quella stessa lirica e rotonda che gli aveva tenuto compagnia sin da bambino, dalle pagine dei grandi classici e delle storie immortali, e che gli aveva fatto stilare fantasmagorici sequel alle storie di Jules Verne, Robert Louis Stevenson e Alexandre Dumas, prima di perdersi nella fantascienza spaziale e di abbandonarsi al flusso di coscienza ed emotività creativa dei poeti della Beat Generation.

La quintessenza dell’antagonismo critico

Lester rappresentò la quint’essenza dell’antagonismo critico. I suoi celebri attacchi al mercato discografico e alla stupidità dei meccanismi commerciali gli valsero l’ostracismo dichiarato dell’industria musicale. Per questo rimase un personaggio inviso e scomodo, criticato e discusso. Finì per essere relegato ai margini, ignorato dai suoi stessi colleghi che facevano la coda davanti alle case discografiche e che avrebbero venduto qualche libbra di carne pur di strappare un’intervista esclusiva con la rockstar del momento. Lester spese i suoi ultimi anni in una condizione di difficile isolamento, ma non se ne fece mai un cruccio. Viveva la sua vita, prendeva le sue sbornie e inseguiva da par suo la felicità. La morte lo raggiunse a soli trentaquattro anni in circostanze mai del tutto chiarite. La Nera Signora non se lo portò, però, via del tutto. Una significativa parte di quella vertiginosa e impudente follia rimane ancora oggi a guardia dei suoi scritti migliori, delle sue fulminanti recensioni e delle sue interviste politicamente scorrette. Perché Lester scriveva di musica “come un danzatore che agita il culo” e forse per questo riuscì sempre a mantenere e rinnovare il patto tacito con i suoi lettori, colmando la distanza fisica con la forza delle parole e il coraggio delle proprie idee. “Quasi tutta la musica di adesso non ha nessun valore. Non ha anima. E’ fraudolenta, così come i meccanismi che avallano la bugia che tutti traggano ispirazione da questa musica. La musica è l’unica cosa di cui m’importa a questo mondo, ma non posso far finta di trovare avvincente la scelta tra le pappette e il fango.”