Once in a lifetime: Jan Tomaszewski

Il 9 gennaio 1948 nasce a Breslavia Jan Tomaszewski, di professione portiere. I Mondiali tedeschi del 1974 rimarranno per sempre nella storia. Non furono solo quelli dei cieli “azzurro tenebra”, del “calcio totale” di Cruyff e Neeskens o della “real politik” di una Germania ancora tagliata in due, con il genio opportunistico di Muller, Beckenbauer e Vogst, da una parte, e la temeraria intensità di Sparwasser, Hoffman e Streich, dall’altra. Non furono solo quelli dei rimpianti e delle docce scozzesi, delle polemiche e dei pomodori. Quei Mondiali, oltre a svelare al mondo la bellezza di una nuova idea di calcio, regalarono ai posteri una manciata di giocatori straordinari. Tra questi, almeno due avrebbero colpito l’immaginario di intere generazioni di portieri.

Due portieri epocali

I Campionati del Mondo di calcio del 1974 furono infatti quelli di due superbi portieri che di battesimo facevano entrambe Jan: l’olandese volante Jongbloed e il polacco di origini lituane Tomaszewski. I due Jan erano paladini della modernità, perché interpretavano quel magico ruolo in un modo nuovo, spettacolare, dinamico e atletico. Ambedue faticavano a rimanere tra i pali ed amavano regalare gioia e brividi ai tifosi. Il rischio era davvero il loro mestiere, soprattutto per quanto riguardava il primo, l’olandese Jongbloed, richiamato in nazionale da Rinus Michels per giocare in un inedito ruolo di “libero” aggiunto alle spalle della mobile linea difensiva. Ambedue scherzavano con la sorte e quel magico rettangolo, ambedue colmavano con brillanti intuizioni e grande agilità qualche lacuna tecnica. Ambedue sarebbero entrati nella storia.

Tecnico, dotato e non meno spericolato

Dei due, Tomaszewski era il più tecnico, ma, come Jongbloed, era estremamente spericolato. Qualcuno sostenne che quel suo modo di parare era inconsueto, improvvisato, non bello a vedersi. Tutti convennero però che ci sapeva fare. Jan era un portiere riflessivo e attento, empatico e reattivo. Tra i pali era insuperabile al punto che sembrava quasi indovinare tutte le mosse avversarie. Non possedeva la plasticità di Majer né l’essenzialità di Zoff, ma, ciò nonostante, risultava sempre tremendamente efficace. Ne seppe qualcosa l’Inghilterra di Sir Alf Ramsey che, in una sorta di spareggio con la Polonia a Wembley, pagò con l’esclusione dai Mondiali i suoi mirabolanti interventi e le sue impossibili parate. In quei Campionati del Mondo Tomaszewski parò qualsiasi cosa: punizioni, conclusioni ravvicinate, ribattute velenose, colpi di testa, deviazioni amiche e nemiche, rimpalli maledetti e persino due rigori in due differenti partite. Lo fece praticamente con ogni parte del corpo. Jan non era bravo solo tra i pali ma anche quando guadagnava metri uscendo dal limite dell’area. Sostennero che “vedesse” il gioco quanto e più di un regista e che capisse le geometrie cogliendone i particolari. Nonostante natali lituani, Jan incarnò il cuore profondo della Polonia al punto da diventare l’anima di quella grande squadra, il punto fermo, l’assoluto riferimento. Lui, la sua fascetta per i capelli e i suoi maglioni gialli o blu deviarono i palloni in maniera creativa, ricorrendo a piedi, mani, pugni e, qualche volta, anche alla testa, con la quale sbrogliava situazioni intricate anticipando con tempismo il contropiede avversario. Jan non ricorreva al calcolo. Quando vedeva arrivare la sfera si lasciava guidare solo dall’istinto e si lanciava nella mischia. Era un attore supremo, perché non dava a vedere la paura. Non era solo una questione di stile. Sembrava piuttosto il suo modo di frequentare la ribellione e la follia, uno schema rodato per sfidare la sorte e la tensione. Così gli capitava di colpire la palla di pugno quando tutti si sarebbero attesi una presa in volo o di trattenere la sfera quando era invece lecito aspettarsi una deviazione. Il suo modo di tenere il campo era una specie di provocazione per tecnici e manuali. Piovvero critiche, osservazioni, commenti e frecciate. Ma Jan parava. Più di tutti.

Un eccentrico pagliaccio

Non c’è dubbio che contribuì a mutare regole e attitudini. Grazie alle sue performance, Tomaszewski trasformò quel ruolo in una nuova frontiera emotiva. Chi arrivò dopo di lui si preoccupò ben poco di classe o stile, badando piuttosto ad efficacia e risultato. Qualcuno, il solito “lingua lunga” di Clough, gli diede del pagliaccio, dell’eccentrico. Brian lo aveva urlato ai microfoni della BBC in quell’amara notte di Wembley, quella della bruciante esclusione. Per lui quel ragazzotto polacco non era un portiere ma un saltimbanco, un clown che faceva scena solo per catturare l’attenzione del pubblico. Con tutta probabilità, clown lo era davvero. Stare tra i pali a fare l’ultimo uomo è un mestiere strano e antico. Per rimanere lì da solo, in mezzo all’area piccola a governare affanni e tensioni, servono coraggio, immaginazione, creatività e visione. L’arte precaria dell’ultimo baluardo è spesso frutto di una ricetta complicata, di una strana alchimia di forza e misticismo. Non c’è mai da stupirsi se un portiere coltivi qualche vocazione circense e la “mise-en-scène” per rubare applausi e, soprattutto, per togliere serenità e concentrazione agli avversari. Lo hanno fatto in molti, prima e dopo di lui. Lo fece Grobbelar. Lo fecero Gilmar, Zamora, Higuita, Chilavert e Goichoechea. Tomaszewski fu un clown diverso da tutti gli altri. La sua specialità non fu quella di far ridere quanto, piuttosto, quella di far piangere le squadre che incontrava. Fu così che entrò nella storia. E poi si sa che il pubblico ha, da sempre, un debole per la follia e il “beau geste”, per lo sberleffo libertino e la provocazione. Figuriamoci se poi si compone di accaniti e impenitenti giovani calciatori in erba come eravamo noi, piccoli teppisti ossessionati da qualunque novità si agitasse sui quei magici fazzoletti d’erba. Quei Mondiali, quelli tedeschi del 74, furono proprio quelli di Jan Tomaszewski e di Jan Jongbloed, furono quelli della fantasia e della libertà. E poco importa se alla fine la vittoria mancò per un soffio, poco importa se quella loro frontiera divenne in seguito una trappola popolata da errori clamorosi e sviste capitali. I due Jan incisero comunque il loro nome negli annali, perché fu proprio con loro che il portiere abbandonò l’area di rigore per entrare nella modernità.