Once in a lifetime: Stanley Matthews

Il 1 febbraio 1915 nasce in Seymour Street, a Hanley, piccolo sobborgo popolare di Stoke-On-Trent, Stanley Matthews, di professione calciatore. Stanley era nato per l’agonismo e la competizione. Buona parte del merito di quella carica fisica e interiore era di suo padre pugile, che avebbe fatto carte false pur di farlo salire sul ring. Ma il cuore di Stanley batteva da un’altra parte.

L’uomo dei record

Il richiamo del football fu, infatti, più forte di tutto, delle spinte e degli affetti. La famiglia Matthews non si pentì mai delle coraggiose scelte del piccolo erede, perché Stanley divenne davvero un protagonista assoluto del suo tempo, il primo calciatore a vincere il Pallone d’Oro a quarantuno anni, davanti a Di Stefano, Kopa e Puskas, il primo inglese a essere omaggiato all’estero con titoli, inviti e ingaggi, il primo calciatore britannico per longevità, dal momento che la sua carriera durò la bellezza di trentacinque anni nel corso dei quali disputò 698 match e 54 incontri della Nazionale segnando 82 reti. Matthews stabilì anche il record dell’età più matura perché giocò la sua ultima partita ufficiale al Victoria Ground, con la maglia biancorossa dello Stoke, il 6 febbraio 1965, sei giorni dopo aver compiuto cinquant’anni.

Una storia di attaccamento e passione

La sua storia è quella di una grande passione e di un nevrile attaccamento ai colori sociali che sapeva di antico e che era cresciuto respirando la stessa polvere di ceramica dei laboratori che avevano reso celebre la sua città natale. In quel mondo irrimediabilmente lontano, a calcio si giocava sempre e solo con la squadra della propria città ed il trasferimento rimaneva opzione remota che si prendeva in considerazione in età matura e per circostanze eccezionali. Stanley non fece eccezione a questa regola. Matthews comincia giovanissimo a calciare palloni con la maglia dello Stoke. Lo fa così bene che anche suo padre desiste da quella strana idea del ring. Stan cresce però con lo stesso suo culto della preparazione atletica e dell’allenamento. E’ la sua carta vincente. Entra in prima squadra giovanissimo e per dieci anni sorprende i difensori avversari scappandogli via lungo la fascia destra. Matthews è una punta agile e prolifica. La sua carriera pare avviarsi al meglio, ma, come molti talenti nati nel secondo decennio del Novecento, oltre agli avversari, deve fare i conti con un lungo conflitto bellico, con i lutti, il dolore, il razionamento, le bombe naziste, il fronte e l’inevitabile sospensione dei campionati. In realtà, l’Inghilterra, in omaggio al suo proverbiale spirito, non smise mai di giocare a football, nemmeno in quegli anni di allarmi aerei, ma esigenze di sicurezza impedirono lo svolgimento regolare di coppe e trofei. Matthews perse così i suoi anni migliori, quelli più importanti. Non sfidò più la sorte sul campo di gioco ma si rassegnò a farlo con la divisa del suo paese. Si lasciò tutto alle spalle e andò ad arruolarsi nella RAF. Fu inviato di stanza a Blackpool, cittadina di mare, sole e scogli. Lì c’era anche il destino ad attenderlo.

La Coppa d’Inghilterra del 1953

A Blackpool incontra infatti una vecchia conoscenza, l’allenatore Joe Smith, che non si lascia scappare la ghiotta occasione di ingaggiare l’ala destra più forte in circolazione. Stanley ha appena compiuto trentadue anni, pensa che quella possa essere una buona occasione per chiudere al meglio la carriera. Stan accetto la proposta. Con un pizzico di fortuna avrebbe potuto finalmente raccogliere le soddisfazioni che gli erano sin lì mancate. Il destino e la sua strepitosa forma gli giocheranno l’ennesimo tiro perché, contrariamente alle più rosee previsioni, Stan continuerà a scendere in campo per altri quindici lunghi anni entrando nella storia del club di Bloomfield Road. Sfiorò per ben due volte il titolo arrivando due volte in finale nella Coppa d’Inghilterra, purtroppo senza molta fortuna. Per quanto incredibile fosse, il miglior calciatore inglese di sempre non era ancora riuscito a vincere nulla. Ma, a trentotto anni suonati, nel 1953, al suo terzo tentativo, il destino si girò finalmente dalla sua parte e Matthews poté alzare al cielo la sua prima e unica F.A. Cup. Quella tra il Blackpool e i superfavoriti del Bolton Wanderers passò alla storia come “la finale di Matthews”.  Dopo settanta minuti di cruenta battaglia, i “Tangerines” erano sotto di tre gol a uno e l’esito sembrava ormai scontato. I centomila di Wembley assistono dagli spalti all’incredibile dramma di Stanley che, sfiancato e senza più energie, rischia di perdere per la terza volta l’appuntamento con la storia. Ma proprio lì accade qualcosa. Inizialmente è una voce, poi un timido coro, quindi un urlo che si alza al cielo e guadagna forza come un’onda possente che si infrange sulla banchina. C’è un pezzo di Wembley che si alza in piedi e comincia a chiamarlo a gran voce. E, incredibilmente, Matthews ritrova per incanto forza, convinzione e lucidità. Si carica così la squadra sulle spalle e la trascina alla vittoria finale dopo un’incredibile rimonta. Grazie ai suoi formidabili assist per Mortensen e Perry finisce quattro a tre e Matthews e il suo Blackpool entrano definitivamente nella leggenda.

Un’ala temibile e scorbutica

Per tutta la lunga carriera, Stanley fu un’ala temibile e scorbutica, imprevedibile e difficile da marcare. Il dribbling bruciante e la finta da fermo divennero le sue specialità, la firma del suo limpido talento. Matthews affrontava l’avversario in campo aperto aspettandolo e sfidandolo, palla al piede, quasi in surplace. Lo chiamava ad un gioco crudele e elementare. Quello raramente resisteva e cercava goffamente la palla che nel frattempo aveva nascosto tra i piedi. Era lì che l’avversario intuiva l’inizio della fine. Stan, allora, fintava di andare, prima, a destra, quindi, a sinistra, ma poi beffardamente si spostava con il pallone nella direzione opposta, lasciandosi l’avversario alle spalle. Matthews ingannò diverse generazioni di arcigni difensori, sempre con grande fantasia, con quel gioco “palla-a-terra” veloce, preciso, tecnico e talmente latino, da farne quasi un brillante estraneo per la solida cultura calcistica britannica. Anche per questo, molto probabilmente, l’Inghilterra si innamorò di lui. Come disse Pelè: “Matthews è stato l’uomo che ci ha insegnato come si dovrebbe giocare a calcio”.