Once in a lifetime: Sylvia Plath

L’11 febbraio 1963 muore a Londra Sylvia Plath, poetessa e scrittrice. Il fragoroso eco del suo suicidio, consumato a soli trent’anni, ha finito per illuminare in maniera più intensa i suoi lavori infondendogli un carattere ancora più ispido, irregolare, profondo e del tutto privato. Perché Sylvia così intese pagare il caro prezzo di promesse frustrate e faticosamente accumulate nel corso di una vita che non concesse mai molto. Nonostante tutto, Sylvia rimase però sempre un’anima sensibile, lucidamente innamorata della vita e di tutto quello che avrebbe potuto offrirle.

Rispetto e felicità

Sylvia scriveva poesie. Frequentava piani inclinati cercando parole buone e intense per raccontare quello che vedeva e, soprattutto, che sentiva, per dare un volto a paure e tensioni. Era uno spirito attento e libero che cercava di destreggiarsi al cospetto di grandi spinte ideali e brucianti contraddizioni. I suoi lavori raccontano infatti il volto grigio e spietato di una società che imprigionava forza e talento e che concepiva l’esistenza femminile solo in funzione di codici ed etichette, di obblighi sociali e familiari. Le atmosfere dei suoi scritti ci precipitano in un mondo chiuso e gretto, meschino, maschile e singolare, dove l’unico marginale spazio creativo riservato alla bellezza dei suoi giovani anni lo si doveva contendere agli affari domestici e alla cura dei figli. Sylvia racconta la sottile angoscia di una società “a misura di uomo”, di un destino ineluttabile che nulla concede, che restringe spazi e mortifica attese, aspettative e speranze. Quello dei primi anni Cinquanta è un mondo chiuso, perbenista e borghese, imperniato sull’ignoranza e il conformismo di schemi ed etichette che fanno strage di intelligenza e ambizione, di talento e coraggio. Quel mondo aveva dichiarato guerra alle giovani ragazze che, come lei, pretendevano un po’ di rispetto e felicità.

La “nuova frontiera”

Quel mondo ordinato e fascinoso l’aveva attratta, almeno inizialmente. La New York che aveva conosciuto dieci anni prima di prendere congedo da tutto pulsava di contagiosa energia. Quelli erano anni memorabili, gli stessi in cui il Village cominciava a popolarsi di artisti e strane idee passando dall’urlo di Allen Ginsberg alle visioni di Gregory Corso, dai romanzi di Kerouac alle ossessioni di Burroughs. Tra quelle vie si sarebbero abbattuti tabù sessuali e barriere culturali e si sarebbe cercata un’idea diversa di società. New York era una nuova frontiera, un acceleratore di tensioni e  inquietudine. Era poesia e musica, il jazz radicale e antagonista dei boppers, i negozi e i beatniks. La “Grande Mela” era l’illusione di un futuro diverso che pareva a portata di mano. Ma New York era anche una vacua passerella di luci e consumi, di feste e belle auto, un polo magnetico di effimera assenza a cui era difficile resistere. A quel magmatico universo anche Sylvia si sentì fortemente attratta. Quella grande città rappresentava la contraddizione di un quotidiano che si abbandonava all’illusione del benessere, della pubblicità colorata dei Mad Men e di tutti i diffusi clichè di casalinghe felici e realizzate che trovavano la propria libertà tra un frigorifero e un aspirapolvere. Sylvia giunge in quella giungla d’asfalto poco più ventenne in qualità di entusiastica vincitrice di uno stage di pochi mesi presso la rivista di moda “Mademoiselle”. La convocano, con altre giovani studentesse, per confezionare il numero di agosto, un’edizione speciale dedicata ai college universitari. A Madison Avenue Sylvia ci approda sulle ali di un sogno adolescenziale. Si fa infatti notare e la scelgono tra moltissime altre candidate per la dolce e sottile inquietudine delle sue giovani parole, quelle del racconto “Sunday at the Mintons”. A New York ci va in compagnia delle sue migliori speranze, ma proprio lì, nel bagliore di quelle strade, avrebbe invece cominciato a fare i conti con tutte le sue zone d’ombra.

Un male oscuro

Quello che doveva essere il momento più bello della sua giovane età divenne invece esattamente l’opposto. L’esperienza di quella grande ed infinita città, i suoi riti mondani, le foto, le corse, le presentazioni e le notti lucide la sconcertano, la fanno riflettere sul drammatico vuoto di quelle vacue derive. Quel suadente lavoro in redazione, quel mondo brillante fatto di guanti, cappellini e aperitivi fa da cassa da risonanza ad un male sottile e oscuro che pretende attenzione e chiede soprattutto risposte. Perché quel contratto è poco più di un dolce inganno, perché le ragazze lì vengono usate come fossero bambole o mascotte solo per attirare attenzione, vendere abiti e uno stile di vita discutibile. Da quella discesa nel cuore oscuro del consumismo Sylvia non si riprenderà più. Da lì in avanti guarderà sempre con estrema diffidenza al futuro scritto dagli uomini. L’angoscia di quei vicoli si ripresenterà ogni volta che proverà a cambiare strada e traiettoria.

“La campana di vetro”

Sylvia affiderà tutta la profonda delusione e amarezza di quella ipocrita trappola al suo romanzo più frequentato. Ne “La campana di vetro” racconterà, infatti, la bruciante traiettoria di Esther Greenwood giovane studentessa che scende in città a fare i conti con i luccicanti imbrogli di una vita al limite che la trascinerà sino alla soglia di una grave psicosi. E’ il racconto di una tagliente alienazione, di un’occasione mancata e di un mondo schizofrenico che brucia modelli e identità. E’ la sua stessa vita. La Plath rimarrà per sempre su quella frontiera a stigmatizzare il bieco conformismo sociale che frustrava le migliori energie, che imprigionava le donne in contesti familiari di squallida ordinarietà sino a precipitarle in un vortice di disturbi depressivi curati a forza di psicofarmaci e con l’agghiacciante pratica dell’elettroshock.

Un amaro oblio

Sylvia e le sue poesie diverranno un simbolo dell’emancipazione femminile, del fiero rifiuto di modelli sociali preordinati e, soprattutto, dell’inalienabile diritto alla felicità. I suoi diari di ordinaria disperazione diventeranno un monito, un accorato invito a non arrendersi mai, perché nessuna mai debba cedere al peso della “campana di vetro” che la circonda. Sylvia continuò a scrivere e a soffrire ancora per molti anni di apparente tranquillità. Continuò, in realtà, ad essere un frequentato campo di battaglia tra spinte e tensioni, tra i registri lirici di una struggente poesia e la claustrofobica routine della vita familiare, la disperata ricerca di indipendenza e la stringente necessità della cura dei figli. In quella sua vita Sylvia rimbalzò tra molte contraddizioni. Finì per sposare il poeta Ted Hughes con il quale decise anche di andare incontro alla maternità, alla ricerca di una stabile normalità. Ci furono momenti felici, ma anche molti frangenti incerti e difficili. Contro quella maledetta e pesante campana di vetro, Sylvia combatté teneramente sino all’ultimo, prima di alzare bandiera bianca consegnandosi al vuoto di una fredda mattina di febbraio. Quel giorno di cinquantatre anni fa pensò che la misura fosse ormai colma e che tutto non avesse più senso. Così, preparò con amore la colazione per i suoi due bimbi ancora addormentati nei loro lettini ed andò a baciarli teneramente per l’ultima volta augurando loro tutto quello per cui lei aveva lottato così strenuamente. Quindi, spalancò la finestra della loro cameretta richiudendosi la porta alle spalle. Sigillò con estrema cautela e attenzione l’accesso alla cucina e, infine, aprì il rubinetto del gas abbandonandosi per sempre alle braccia di un amaro oblio.

“Stare sdraiata è per me piu’ naturale.
Allora il cielo ed io siamo in aperto colloquio,
e sarò utile il giorno che resto sdraiata per sempre:
finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno tempo per me.”  (“Io sono verticale”, 1961)