Once in a lifetime: Beppe Fenoglio

Il 18 febbraio 1963 muore a Torino Giuseppe Fenoglio, di professione scrittore. La breve e avventurosa vita di Beppe, morto prematuramente a soli quarantuno anni, è ben descritta dalla grande intensità delle pagine della sua scrittura. Fenoglio ha attraversato anni difficili, decenni dov’era necessario scegliere da che parte stare, dov’era doloroso anche solo presidiare il confine, per non perdere e per non perdersi. Ha conosciuto lo scontro e la paura, l’adrenalina della battaglia e della fuga. Ciò nonostante, Beppe ha saputo mantenere misura e attenzione per le ragioni ed i moventi di tutti, ha indagato le coscienze scavando nelle tante storie di vita vissuta per riportare alla luce ideali e valori mai dimenticati. Per questo, nonostante un forte legame con i suoi tempi, rimane uno scrittore di grande modernità e per tutte le stagioni, avvezzo a rappresentare punti di vista complessi e intricati ed a nascondere, tra le trame umane, la profondità dei legami e dei sentimenti.

La forza drammatica di un paesaggio interiore

Molto si scrisse di quella sua straordinaria capacità di leggere il quotidiano, di tracciarne il vivido sentire, interpretandone i tratti, partendo da disagio e solitudine, da forze drammatiche e dal paesaggio interiore. Tanto si disse di quella sua poetica neorealista, della speciale empatia con il reale, di una mappa emotiva che camminava sui sentieri partigiani delle sue zone, l’Alta Langa, il Roero e la città di Alba dall’irrisolta anima pedemontana. Ma ciò che mi ha sempre colpito delle sue parole scolpite è il complessivo stile narrativo, il linguaggio moderno e fluido, quell’esuberante energia che veniva da lontano, che sapeva di classico e antico e che sembrava possedere il respiro di miti e leggende o la feconda ricchezza di legami profondi e vite consumate al cospetto di eventi grandi e incontrollabili. Più che una specifica bravura, la sua sembrava una più generale questione di attitudine e sensibilità. Quello di Fenoglio è, infatti, lo stesso talento lucidissimo dei più grandi, quella singolare e lieve specialità di risultare sempre profondo rimanendo apparentemente in superficie, di lasciare impronte decisive e imponenti anche quando si insinuava nel quotidiano inseguendo traiettorie aeree. Beppe aveva una grande forza interiore, una cifra appassionata con cui leggeva il mondo delle cose e quello dei sentimenti.

Una vita poco docile

La vita non si era dimostrata docile nei suoi confronti. Lo aveva spinto precocemente a scelte mature e di campo, incoraggiandolo a prendere il largo nella tempesta verso lidi e derive sconosciute. Erano stati giorni duri e di formazione, momenti indimenticabili ed esperienze difficili. Tutto era poi servito a comprendere qual era la strada maestra da percorrere, il sentiero che andava battuto. La scrittura lo aveva così rapito aprendo finestre su mondi nuovi e immaginifici che affondavano tutti però radici profonde in terra, nella sua langa di fatica e dall’antica sapienza contadina. Così erano arrivati anche stima e applausi, ma poi il tempo aveva chiesto di saldare il conto in netto anticipo. Un tumore ai polmoni cattivo e fulminante avrebbe infine preteso soddisfazione. La sua parabola sarebbe precipitata al suolo all’alba del quarantunesimo anno di età, lasciando un vuoto incolmabile. Ma la sua traiettoria avrebbe per fortuna lasciato un solco profondo.

Rappresentazione pura

In quel perimetro Fenoglio ha raccontato la debolezza e la forza, la paura e il dolore, declinando la vita e le sue derive con una capacità descrittiva che si faceva scena prima di tutto, rappresentazione pura, perfetta sintesi tra cinema e teatro. I tanti snodi narrativi hanno inseguito la sua vita e le circostanze che l’hanno segnata, gli amori e le perdite, i sacrifici e il dolore. La vivida narrazione delle storie partigiane di Resistenza e del successivo tracciato di scelte di vita etiche e radicali non scivola mai nella retorica ma parla e coinvolge il lettore alle trame emotive, gli fa respirare l’erba umida del mattino e il calore della terra di vigna bruciata dal sole. La sua penna lo porta via con sè al centro dell’azione, consegnandolo a quello stesso palcoscenico abitato da miti epici e popolari, da temi eroici e racconti immortali, semplici, titanici ed esemplari, come il dibattersi di Ahab mentre volta “la schiena al sole” nella tormentata caccia a Moby Dick o il tormento poetico di Achille intrappolato dalla sua invulnerabilità. Sono proprio queste coordinate umanamente universali e dolorosamente individuali a raccontarne e a descriverne ancora oggi, a cinquant’anni dalla scomparsa, tutta la grandezza e la luminosità.

“Posò il moschetto e si sedette su un tratto libero del muretto, altissimo. La stanchezza l’aggredì, subdola e dolce, e poi una rigidità. Poi nella sua spina dorsale si spiralò, lunga e lenta, l’onda della paura della battaglia ripensata. Anche agli altri doveva succedere lo stesso, perché tutti erano un po’ chini, e assorti, come a seguire quella stessa onda nella loro spina dorsale. Una battaglia è una cosa terribile, dopo ti fa dire, come a certe puerpere primipare: mai più, non mai più. Un’esperienza terribile, bastante, da non potersi ripetere, e ti dà insieme l’umiliante persuasione di aver già fatto troppo, tutta la tua parte con una battaglia. Eppure Johnny sapeva che sarebbe rimasto, a fare tutte le battaglie destinate, imposte dai partigiani o dai fascisti, e sentiva che si sarebbero ancora combattute battaglie, di quella medesima ancora guerra, quando egli e il Biondo e Tito e tutti gli uomini sull’aia (ed ora apparivano numerosi, un’armata) sarebbero stati sottoterra, messi da una battaglia al coperto da ogni battaglia.”