Once in a lifetime: Guido Monzino

Il 12 marzo 1928 nasce a Milano Guido Monzino, esploratore e alpinista per passione. La storia di Guido è quella di una chiamata, di un cambiamento radicale di vita oltre che di orizzonti. E’ il racconto di un irresistibile richiamo per le vette e la montagna, per i profili innevati e le ascese più avventurose. Furono quelle visioni a cambiare rotta alla sua esistenza in barba ad attese e aspettative.

Un diversa direzione

La sua strada era stata tracciata molto prima di poterla anche solo intuire. Perché Guido, nobile di nascita, era un predestinato. Avrebbe dovuto prendere in mano l’azienda di famiglia, la Standa, in cui aveva fatto gavetta arrivando sino ad assumerne il ruolo di Direttore attorno alla metà degli anni Sessanta. Il suo era un destino scritto da tempo come il percorso di quella brillante carriera, una traiettoria naturale tracciata in anni in cui era del tutto impensabile sottrarsi agli obblighi di famiglia. Secondo il disegno del patriarca, in quella sua vita non ci sarebbe stato spazio per emozioni e sfide, se non per quelle che avrebbe potuto coltivare dal piano operoso della scrivania del suo ufficio in qualità di moderno tycoon del boom economico. Ma quella esistenza, sin lì spedita e ferocemente finalizzata al risultato, aveva improvvisamente preso a tentennare. Guido aveva rallentato il passo, aveva speso del buon tempo a guardarsi attorno. Si era infine lasciato distrarre da cose marginali e laterali, dal respiro e dal sudore, dai libri, dalla natura e dalla montagna. Singolarmente, il definitivo colpo di grazia a tutta quella decrescente certezza lo avrebbe però dato la viva voce di un celebre alpinista, quella del primo uomo a salire sulla vetta del K2.

La “Gran Becca” con Compagnoni

Il racconto che Alchille Compagnoni gli fa di quell’impresa lo rapisce definitivamente. Tra i due nasce un rapporto d’amicizia e di reciproca stima. Guido lo segue nelle sue avventure dapprima con discrezione e umiltà, poi con sempre maggiore sicurezza. Con Achille scala, per vezzo e scommessa, anche il dente affilato del Cervino. Quella ascesa gli apre le porte di una dimensione nuova ed eccitante. Il silenzio, la fatica, i ghiacci, le corde e l’aria sottile incrinano e infrangono ogni residua certezza e gli regalano una prospettiva del tutto inedita, straordinaria e appassionante. Da quel giorno l’orizzonte muta drasticamente. Guido non è uno scalatore: non è un uomo della roccia, non apre nuove strade né sale lungo vie impervie e dirette. Ciò nonostante, dedica la sua vita all’aria rarefatta delle altezze. Monzino diventa così un’anima d’alta quota, uno spirito votato all’avventura, un provetto organizzatore di spedizioni e imprese. Ne metterà assieme oltre una ventina andandosene a caccia delle più alte vette delle Alpi, della “sua” fatata Valtournenche, come pure delle Ande, dell’Himalaya o delle montagne più selvagge del continente africano e della Groenlandia.

Una vita per l’avventura

Monzino ama l’avventura. Progetta e prepara meticolosamente, con grande dispendio di uomini e risorse, ogni suo viaggio. Il suo nome si lega in particolare a due celebri spedizioni, quella del 1971, che lo porta nella fredda distesa dell’Artico alla conquista del novantesimo grado di latitudine nord senza mezzi artificiali, e quella del 1973, con cui pianta per la prima volta il tricolore sulla vetta dell’Everest. Quella del Polo Nord fu un’impresa epica e “antica” perché lui, Minuzzo e Carrel percorsero 750 chilometri a piedi sul pack esposti al vento glaciale ed a temperature rigidissime, ricalcando le orme di Robert Peary e Matthew Henson nella loro famosa marcia del 1906. Quella dell’Everest fu, invece, un vero capolavoro di tecnica e logistica che scomodò, per la prima volta nella storia, un poderoso apparato di mezzi.

L’attacco all’Everest

Monzino non badò infatti a spese e mobilitò ben nove C-130 della 46° Aerobrigata con cui trasportò a Kathmandu oltre 100 tonnellate di materiali e due elicotteri. Uno di questi stabilirà anche il record di altitudine, atterrando sui ghiacci eterni della “montagna sacra” ad oltre 6500 metri. La spedizione si componeva di 150 tra italiani e sherpa, 2000 portatori e molte centinaia di yak. L’attacco alla cresta finale dalla sella del Colle Sud venne sferrato con successo tra il 5 e il 7 maggio 1973. Non fu un’avventura semplice, anche a giudicare dagli strascichi. Ne seguirono, infatti, infinite polemiche sia per la quantità dei mezzi utilizzati che per il ruvido tono del suo controllo. Nonostante le polemiche per il rigido inquadramento militare degli uomini e un crescendo di discussioni, il Conte Monzino riportò a casa sani e salvi tutti i suoi uomini in buona compagnia di una ricca messe di dati scientifici. La sua fu l’ultima delle grandi spedizioni italiane e il suo nome divenne, da quel giorno, sinonimo di tenacia, avventura e capacità organizzativa.

Un carattere forte e deciso

Monzino non era per niente una persona facile o accomodante. Aveva un carattere forte e deciso ed era capace di improvvisi slanci ma anche di sferzanti uscite. Si infiammava facilmente e cadeva spesso preda di attacchi collerici. Ma possedeva anche grandi pregi. Perché Guido pensava sempre a voce alta, era leale, franco, diretto e coraggioso. Come un bravo comandante, seguiva uno stretto codice etico. Teneva ai suoi uomini ed era pronto ad ogni sacrificio pur di evitare qualsiasi perdita. Guardava ogni giorno ai rischi da cui era irresistibilmente attratto ma, al contempo, cercava di prevenirli, evitando ogni più tragica conseguenza. E questo, si sa, in alta quota è l’atteggiamento che trasforma in leggenda gli scalatori più temerari.