Once in a lifetime: Eugenio Castellotti

Il 14 marzo 1957 muore a Modena Eugenio Castellotti, pilota di professione. La sua è una storia esemplare che racconta inciampi ricorrenti. Di come, cioè, talvolta le circostanze della vita imbocchino la via di un agognato riscatto e, nel mentre siano sul punto di indulgere al meglio, finiscano invece per accanirsi ancora di più, negando la piena realizzazione di tensioni e desideri. Eugenio era passato attraverso tutto questo, vi aveva fatto i conti in modo anche doloroso e, in qualche termine, se lo era anche lasciato alle spalle. Fu in quel frangente, quando il destino sembrava aver finalmente giocato carte buone, che Eugenio incappò nella sua mano più sfortunata.

Una vita difficile 

All’anagrafe Eugenio era nato senza padre. Poi, come in una favola antica, lo aveva trovato, per mezzo di un contenzioso riparatorio e di un tardivo riconoscimento legale. La fortuna, in qualche imponderabile maniera, aveva provveduto. Non aveva solo riparato un torto e un’assenza di affetti, ma aveva regalato un’inedita e insperata prospettiva. Gli aveva donato un futuro. Era stato un bel salto. Quel padre avrebbe potuto schiudergli una ben diversa prospettiva. Da lì in avanti, Eugenio avrebbe potuto chiedere qualsiasi cosa alla vita dal momento che aveva scoperto di avere lo stesso sangue di una famiglia agiata e benestante, di essere il discendente di un ricco e noto avvocato. Quel padre inizialmente riluttante, sull’onda dei rimorsi, lo aveva infine riconosciuto alle soglie della maturità ed aveva preso accanitamente ad investire risorse in quel tardivo affetto assicurandogli una prospettiva fatta di studi importanti, amicizie influenti e “giri giusti” nella speranza che la sua traiettoria finisse per calcare le sue stesse impronte. Ma Eugenio mal aveva sopportato tutta quella pressione e non aveva digerito quel tardivo interesse.

Il richiamo delle corse

A lui interessava l’unica cosa che quella facoltosa attenzione non avrebbe mai potuto comperare. Eugenio voleva correre in automobile. Lo aveva fatto molte volte di nascosto dal padre, arrivando anche a progettare di falsificare la carta d’identità. Si era, poi, rassegnato ad attendere la maggiore età e, tra crescenti tensioni familiari, si era infine accomodato al volante di un’auto da corsa senza scenderne più. Quella sorda e logorante guerra con il padre non aveva però fatto prigionieri. Quella lunga faida era infine terminata solo all’indomani della sua scomparsa nel 1959. La sorte si mostrò grata e puntuale, perché, all’alba dei vent’anni, Castellotti si ritrovò proprietario di un consistente patrimonio, finalmente libero di poter scegliere la sua strada. Così, acquistata una Ferrari, decise che le corse automobilistiche sarebbero diventate il suo mestiere.

Foga e esuberanza

Eugenio ci sapeva fare. Aveva uno stile battagliero e aggressivo. Al volante domava curve e incerti, ombre e velocità. Raramente alzava il piede dall’acceleratore. Quella sua principale dote era anche il suo tallone d’Achille, perché tutta quella foga e quella giovanile esuberanza finivano spesso per non risparmiare le vetture su cui saliva. Ma quando la meccanica, le gomme e il motore reggevano, in pista non ce n’era per nessuno. Arrivarono così i primi podi e i primi successi e con essi fama e notorietà. Eugenio si fece rapidamente apprezzare da tutto il giro dei piloti. Con alcuni di essi, Alberto Ascari in particolare, nacque anche una grande amicizia. Fu un rapporto vero e intenso, coltivato tra le pause dei Gran Premi e costruito su agonismo e cronometri. Fu in nome di quella amicizia che Eugenio propose a un convalescente Alberto di provare la sua Ferrari a Monza. Fu in nome di quella reciproca stima che Ascari non esitò. Eugenio gli prestò così guanti e casco e Alberto si accomodò nell’abitacolo del suo bolide. Non percorse, però, che pochi giri, nell’ultimo dei quali ad attenderlo alla curva del Vialone trovò un fatale e tragico destino. La tragedia di Ascari lo segnò profondamente. Ciò nonostante, Eugenio cercò nuovi stimoli e tornò a correre più forte di prima, ma dal quel momento la fortuna sembrò voltargli le spalle.

Un lunga serie di sfortunati eventi

Eugenio dovette fare i conti con una lunga serie di sfortunati eventi, con ritiri, rotture, incidenti e, persino, qualche mal digerito ordine di scuderia che gli impose di dare strada a colleghi più titolati o con una migliore posizione in classifica generale. Decisamente meglio andò con le vetture Sport con cui vinse una bagnatissima “Mille Miglia” e la “12 Ore di Sebring”. Poi, il destino ricominciò a tessere le sue fitte trame. Fu infatti grazie ad un singolare incastro di circostanze che Eugenio si innamorò di una celebre e promettente stella del palcoscenico. Quella con Delia Scala fu una relazione intensa e travagliata, sia per le loro complicate vite ma anche per l’aperta ostilità di sua madre. Le cose sembrarono più volte precipitare e fu allora che Eugenio prese la decisione più importante della sua vita. Lui e Delia si sarebbero sposati sul finire di quell’anno, del 1957, e l’avrebbero fatta finita con quella vita assurda consumata a rincorrersi tra palchi e box. Lei avrebbe lasciato per sempre il teatro, lui i circuiti. Ma tutti quei buoni propositi erano minacciati ogni giorno dai rimbalzi della loro instabile passione e dalla stessa voglia di bruciare la vita che li aveva fatti conoscere. Così, dopo l’ennesima notte in bianco trascorsa a litigare, un nervosissimo Eugenio si mise al volante della propria auto per varcare l’Appennino e presentarsi di buona mattina sul circuito di Modena per provare la nuova Ferrari 801 nel tentativo dichiarato di strappare il record sul giro stabilito da Jean Behra.

Il tragico epilogo

Eugenio voleva mostrare tutto il proprio talento. Volevo convincere il “Drake”. Una buona prestazione sul giro gli avrebbe consegnato una buona macchina per le gare successive. Avrebbe così potuto cercare la vittoria, avrebbe potuto tornare sul gradino più alto del podio e sperare, da quella posizione, di sciogliere i nodi di quella complicata esistenza. Chissà cosa accadde, chissà a cosa stava pensando quando, in piena curva, la sua vettura finì per rimbalzare malamente su un cordolo rovesciandosi pesantemente sull’asfalto ad oltre duecento chilometri all’ora. Eugenio non ebbe scampo. Alle 17.19 del 14 marzo 1957 il filo che legava la sua esistenza a quella di Delia si spezzò per sempre. Le esequie furono solenni. Vi parteciparono tutti. Gli amici, i parenti, i piloti che aveva sfidato e tutto l’affezionato pubblico che aveva fatto sognare. Mancava solo Delia. Non avrebbe mai potuto resistere a tutto quel dolore. Ciò nonostante, quella sera andò comunque in scena. Si presentò sul palco algida e aerea, con la morte nel cuore, lasciando che l’ombra di Eugenio rimanesse dolcemente ad attenderla per tutto il resto della sua dolorosa e complicata esistenza.