Once in a lifetime: Davey Moore

Il 25 marzo 1963 muore a Los Angeles David S. Moore, pugile di professione. Davey veniva da Lexington, Kentucky, terra di cavalli e distillerie, ma cominciò a boxare dalle parti di Springfield in Ohio. Era uno dei tanti pesi piuma che aveva visto nel pugilato un’opportunità per prendersi qualche rivincita sulla vita. A quell’epoca la boxe, oltre a bruciare sogni e tensioni tra le corde di un ring, era un formidabile ascensore sociale, il modo più rapido per tentare di imbrogliare il destino e le stelle. Su quella strada si incamminarono in molti. Lo fece Davey come molti altri della sua generazione. Di lì a poco lo farà anche Cassius Marcellus Clay Jr., il grande Muhammad Ali, l’uomo che “volava come una farfalla e pungeva come un’ape” e che era nato non molto distante da lì, nella verde Louisville.

Un pugile promettente e coraggioso

Davey era un pugile potente, disciplinato e preciso. Sapeva tirare di boxe. Era abilissimo nel difendersi mandando a vuoto i colpi degli avversari con il solo movimento del corpo anche se talvolta tutta quella intensità lo sfiniva lasciandolo troppo sulle gambe. Quello era il suo punto debole, ma Davey compensava il tutto con massicce dosi di coraggio ed energia. Moore sul ring ci sapeva fare ed era un atleta ostico da affrontare. A nemmeno vent’anni passa al professionismo e conquista subito l’attenzione generale. Nel suo primo anno vince sei incontri e rimedia una sola sconfitta. Non è un super campione, non fa parte dell’eletta schiera di quelli che i pugni degli avversari manco li vedono o li sentono, ma è regolare, promettente e ben impostato, conosce ogni centimetro del quadrato e regge al meglio la pressione. La sua carriera procede spedita. Nei successivi sei anni mantiene un impressionante ruolino che lo porta finalmente anche a combattere per il massimo titolo.

La corona mondiale

L’appuntamento con la storia è fissato per una fresca serata di marzo del 1959. “Il fucile del Kentucky” sfida Hogan “Kid” Bassey per il mondiale dei pesi piuma ed ha facilmente la meglio. Moore conquista così la corona mondiale, quella stessa che riuscirà a difendere con successo per altre cinque volte. In mezzo agli impegni ufficiali il “piccolo gigante” trova anche il tempo di girare il mondo rimbalzando al di qua e al di là dell’Atlantico per misurarsi con molti campioni continentali. Sono tutti match fantastici. Nel suo ultimo tour europeo Moore manda al tappeto Gracieux Lamperti e batte al meglio delle dieci riprese sia Fred Galiana che il nostro Raimondo Nobile. Il pugile americano sembra ormai lanciato verso la storia. Poi arriva un nuovo match per il titolo. A sfidarlo questa volta è il cubano Ultiminio “Sugar” Ramos. L’incontro avrebbe dovuto andare in scena ancora a luglio dell’anno precedente ma un nubifragio aveva allagato il Dodger Stadium. E’ un evento attesissimo. Pochi sport come la boxe masticano dolore e riscatto, fatica e futuro. Il match con Ramos avrebbe rappresentato tutto questo, la voglia di vincere e la paura di perdere. Gli sponsor si fecero sotto e la televisione decise così di trasmettere in diretta l’incontro.

Davey vs Sugar

Nell’infuocato catino di Chez Ravine accorrono migliaia di latinos a tifare “Sugar”. Si respira un’atmosfera tesa e caliente. I pugili si lasciano contagiare e, sin dalla campana del primo round, si scaricano addosso una pioggia di fendenti. Il match rimane però in grande equilibrio almeno sino alla decima ripresa. Davey, però, comincia ad accusare evidenti difficoltà davanti all’esuberanza fisica di “Sugar” che lo costringe sempre più all’angolo e alle corde. L’incessante azione di Ramos mette sotto pressione la guardia di Davey che subisce qualche colpo di troppo e comincia a sanguinare. Moore indietreggia, tentenna paurosamente ed ormai sfinito si consegna alla violenza di una micidiale serie di colpi. Poi, in uno scambio ravvicinato, “Sugar” scarica la rabbia residua depositando un potente gancio sul collo dell’avversario. Moore sbanda, scivola e va al tappeto sbattendo pesantemente la nuca contro le corde del ring. Davey fatica a riprendersi, è confuso e impacciato. In un crescente ed assordante boato, l’arbitro pone così fine all’incontro. E’ un dannato KO tecnico, ma il dramma del pugile del Kentucki deve ancora compiersi.

Quel micidiale colpo alla nuca

Il colpo assestato è tragicamente più forte di quanto era apparso sulle prime. Davey sembra però riprendersi. Stremato, con lo sguardo perso e confuso, riesce anche a farsi intervistare prima di lasciare il ring, ma cade in coma non appena mette piede negli spogliatoi. Morirà tre giorni dopo senza riprendere conoscenza. La sua tragica vicenda vissuta in diretta davanti ai televisori mette un intero paese di fronte al dramma della morte e alla pericolosità della boxe. E’ passato solo un anno dalla tragica scomparsa di un altro giovane campione, di Benny “Kid” Paret, e il dibattito finisce per infiammare le coscienze. E’ uno scontro tra diverse retoriche ed opposte narrazioni. L’America perde del tutto la sua verginità che finisce ancora una volta per essere immolata sull’altare delle convenienze. La sua morte diventa così un simbolo e un’icona di ingiustizia. La cantano a caldo le migliori menti di una generazione. Bob Dylan, Pete Seeger e Phil Ochs la addebitano al vorticoso giro d’affari, all’arbitro che non ha fermato l’incontro, al manager che lo ha spinto verso il baratro, e al pubblico che ha preteso lo spettacolo per cui aveva pagato. E’ la morte dello sport, del debole contro il forte. E’ simbolicamente la morte di ogni speranza di riscatto. Fuor di metafora, la vicenda di Davey rimane quella di un ragazzo che ha inseguito il sogno con quanto aveva a disposizione. Quella di Moore è la tragica parabola di un campione sfortunato che ha conteso al destino la storia combattendo per questo, senza risparmiarsi, sino all’ultimo attimo della sua esistenza, ben sapendo che a separarlo dal successo o dalla sconfitta sarebbe toccato ad un conteggio di dieci infiniti secondi.