Once in a lifetime: Karl-Heinz Schnellinger

Il 31 marzo 1939 nasce a Düren, in Renania, Karl-Heinz Schnellinger, di professione calciatore. Karl-Heinz è stato molto più di un apprezzato giocatore. Il suo cognome ha contrassegnato un’intera era del pallone italico, un’epopea fatta di partite domenicali e spalti affollati, grandi registi e rari stranieri, maghi e presidenti d’assalto. Quell’epoca inseguiva certezze con naturalezza e agonismo, rimanendo lontano da falsi eccessi e protagonismi. Frequentava follia, genialità e pensieri irregolari. Al di là di schemi o tattiche, quel calcio apparteneva ad un’anima collettiva e comune. Era veramente sport di squadra, anche se per vincere le partite, poi, servivano comunque grandi individualità, determinazione, piedi buoni e grandi polmoni. Karl-Heinz rappresentava tutto questo. Dalle parti di Milanello, sua seconda casa, lo chiamavano “Volkswagen” perchè era affidabile come e più di un diesel tedesco, perchè viaggiava con qualsiasi tempo e, soprattutto, perchè ti tirava sempre fuori dai guai.

Potenza e agilità

In quel calcio tecnico e riflessivo uno come lui valeva oro, non solo perchè assicurava un’invidiabile continuità di rendimento ma anche perchè coniugava potenza e agilità, da sempre due valori aggiunti per chi deve spezzare le manovre avversarie liberando l’area di rigore. Schnellinger era uno specialista del contrasto, un invalicabile mastino e un ostico baluardo difensivo. Schivo e silenzioso, finiva che ti accorgevi della sua importanza quando non poteva scendere in campo. Kalle aveva cominciato a giocare sulla fascia sinistra. Era abile non solo nel contenere l’ala avversaria, ma anche nel far ripartire l’azione aprendo corridoi profondi come infinite autobahn. Il suo era un calcio atletico e fisico, efficace e redditizio. Fu proprio quella sua concretezza e quell’innato senso della posizione a trasformarlo in libero spostandolo in una posizione centrale davanti al portiere. Perché Karl-Heinz ispirava fiducia, perchè quando bisognava soffrire era su di lui che potevi fare conto, perchè era uno che badava al sodo, che quando bisognava metterci la gamba non si tirava mai indietro, duro e leale come pochi.

Un “uomo squadra”

Il “tedesc”, come lo chiamava affettuosamente Nereo Rocco, non aveva infatti paura di niente e nessuno, nemmeno quando c’era da buttare palla in tribuna pigliandosi qualche fischio. Per questo, per la sua estrema saldezza e una naturale vocazione alla disciplina tattica ed al sacrificio era diventato una pedina inamovibile dello schieramento del “Paron”. Perché “Volkswagen” non muoveva bene solo le gambe ma anche il pallone. Interpretava il suo ruolo in maniera esemplare, sfruttando straordinarie doti di chiusura e di anticipo. Schnellinger era tutto questo, un modello di impegno e correttezza, un “uomo squadra”, un’autentica certezza.

La celebre spaccata dell’Azteca

Tra le sue tante specialità però non c’era il gol. In carriera ne realizzò davvero pochissimi. Nelle 222 partite disputate in Serie A, Karl-Heinz gonfiò la rete avversaria solo tre volte. Singolarmente, il suo nome è però passato alla storia entrando nel tabelloni dei marcatori dell’epica semifinale dei Mondiali messicani del 1970, quella tra Italia e Germania, quando in acrobatica spaccata infilò uno sconcertato Albertosi al minuto numero novantadue, in pieno recupero, consegnando le squadre ai tempi supplementari e alla leggenda. Schnellinger esultò, ma non troppo, come peraltro era sua costume. D’altro canto, ormai, si sentiva anche un po’ italiano. Era approdato nel nostro paese sull’onda delle sue strabilianti imprese con la maglia del Colonia, con cui si aggiudicò il titolo nazionale nella stagione 1961-62. Il giovane Karl-Heinz si lasciò tentare dalle promesse e dalla serrata corte della Roma, che però decise di usarlo come pedina di scambio nell’affare che doveva portare in giallorosso Angel Benedicto Sormani. Schnellinger finì così al Mantova di Bonizzoni dove divenne un saldo perno difensivo. L’anno seguente torna a giocare Roma, dove infila un’altra buona stagione. Ma l’aria della Capitale non fa per lui e l’ennesima grave crisi societaria lo costringe ancora una volta a fare le valigie. Questa volta c’è il Milan del “Paron” ad attenderlo a braccia aperte per rinforzare una difesa troppo leggerina e disinvolta.

Gli anni del “Paron”

A Milano Schnellinger trova finalmente la sua migliore dimensione, perché Rocco scommette sul suo ritmo e sulle sue capacità di impostazione e interdizione per dare una salda anima a quello squadrone. Nei nove anni in cui indossò la maglia rossonera vinse quanto possibile. Schnellinger diventò talmente importante per l’equilibrio e l’assetto di quel modulo tattico che quando non poteva scendere in campo erano lacrime e dolori, come quel “fatale” pomeriggio di domenica 20 maggio 1973 quando, infortunato, dovette assistere dalla tribuna del Bentegodi alla tragica disfatta rossonera. Alla chiusura del sodalizio milanista rientrò in patria per vestire, a trentacinque anni suonati, la maglia del TeBe Berlino. Nonostante l’entusiasmo, Schnellinger non poté impedire la retrocessione. Così “Carlo” decise che era arrivata l’ora di smettere con i sogni e il pallone per tornare nella “sua” Italia e nella “sua” Milano, dove tuttora risiede e lavora. Incredibilmente non si è più riavvicinato al mondo del calcio, un po’ per quel suo carattere da orso, chiuso e taciturno, un po’ per il modo di prendere le cose, sempre dannatamente sul serio, con ordine, impegno e concentrazione, soffrendo e masticando tensione sino all’ultimo secondo dell’ultimo minuto, sperando magari di segnare di nuovo la rete della vita, magari in spaccata, all’ultimo istante di una semifinale mondiale. Dal giorno del suo ritiro il calcio ha regalato un’infinita galleria di bravi calciatori. Ma come lui non se ne sono poi visti molti.