Once in a lifetime: Amedeo Biavati

Il 22 aprile 1979 muore a Bologna Amedeo Biavati, di professione calciatore. La storia del calcio è un mirabile incastro di tante piccole grandi gesta. Di alcune, quelle più eclatanti e vittoriose, sono pieni gli annali, di altre, sobriamente memorabili, ci rammentiamo a stento. Colpa probabilmente di una memoria che si fa ogni giorno più corta e di quel perpetuo calar di polvere che confonde e offusca orizzonti, margini e confini.

Un talento veloce, agile e rapido

Amedeo Biavati non aveva tempo per la polvere. Troppo veloce, agile e rapido per farsene cruccio. Il suo esordio, ancora diciottenne, con la maglia rossoblu fu bruciante ma fu il suo ritorno a Bologna, dopo un anno incolore speso a Catania, a farlo entrare nella leggenda. Il merito fu di un tecnico brillante, geniale e coraggioso, di quel Arpad Weisz che, dieci anni dopo, finirà purtroppo la propria esistenza dietro ad un reticolato ad Auschwitz, inghiottito dalla crudele e barbara follia degli uomini. Weisz è un maestro. Mastica calcio da decenni e ha imparato a riconoscere al volo l’instabile irregolarità che abita i piccoli geni. Vede giocare Amedeo ed ha una visione. Ne segue così discretamente gli scatti e quelle sue strane derive acrobatiche e matura un’intuizione. E’ così che lo schiera largo all’ala destra, dandogli come unica direttiva quella di saltare l’uomo e proiettarsi sulla fascia laterale per mettere il pallone al centro dell’area. Quel lungo corridoio laterale diventa così una sorta di palcoscenico a cielo aperto, perché Amedeo non è solo un promettente giocatore, ma anche un singolare artista di strada, un giocoliere che sfida il limite, un magico acrobata che usa le gambe non solo per correre e calciare ma anche per nascondere la sfera agli avversari.

Il celebre “doppio passo”

Il suo “doppio passo” è un frammento di poesia, pura arte pallonara, una brezza gentile e leggera che rapisce le folle e i bambini, lasciandoli ogni volta fermi e immobili, con il naso all’insù. Quel gesto sussurra bellezza e rinvia a un calcio letterario e letterato che scatena la fantasia dei cronisti più colti e preparati. Ecco, ad esempio, come celebrava le sue sospensioni il sommo Brera. “La finta di iniziare il dribbling con il destro, teso e poi trattenuto e richiamato con armoniosa somioneria quando l’avversario ha pensato ormai al sinistro. E’ una finta elegante, con il difetto di non essere un gesto perentorio: ma proprio per la sua semplicità inganna l’avversario che sta per opporsi in tackle e vi rinuncia, insospettito da questa pausa: allora ne approfitta Biavati per partire e prendere vantaggio”.

La quintessenza del dribbling

Amedeo è la quintessenza del dribbling, l’atto più estremo e irriverente del gioco del football, la metafora più vivida del suo spirito. Grazie ad esso diventa uno dei protagonisti del calcio del primo Novecento, quello di Pozzo e dei suoi titoli mondiali. I maligni mormorano che sia solo merito di quei suoi strani plantari anatomici che hanno in realtà l’unico scopo di restituire un po’ di curva a piedi altrimenti piatti. Ma sono solo volgari illazioni, il solito vociare d’invidia che monta all’indomani delle sue imprese, come quella eclatante di sabato 13 maggio 1939 quando, a San Siro, esibisce per ben due volte di fila quella sua letale finta mandando al tappeto prima Hapgood e poi il portiere Woodley siglando così il primo dei due gol con cui l’Italia impatta con i maestri inglesi. Quello era ancora un calcio gentiluomo, rude nei contenuti agonistici ma anche espressione di codici sportivi e cavallereschi. Capita così che Hapgood si rialzi dal fango in cui il “paso doble” di “Medeo” l’ha trascinato e, nonostante la comprensibile amarezza, vada a stringergli la mano complimentandosi. Incanti irripetibili nell’odierna giostra dell’esasperazione partigiana.

Fece la storia senza diventare leggenda

Nonostante uno scudetto e una Coppa del Mondo, Amedeo non è però rimasto a lungo nella memoria collettiva, cedendo il passo a icone della modernità e scomparendo definitivamente dal tabellino del bravo cronista. La storia si è dimenticata di lui abdicando a pregiudizi e partiti presi. Non è infatti un caso che alle odierne brillanti giocate di Messi e Ronaldo si associno sempre e solo i nomi dei soliti Pelè, Garrincha o, magari, di Leonidas e non anche quello dello stempiato fuoriclasse emiliano che, come racconta Vittorio Pozzo, fece la storia anche senza diventare leggenda: «Qualcuno sostiene che già Mumo Orsi eseguiva quel finto passo per raccogliere la palla con la seconda gamba, ma io debbo dire che lo abbozzava appena. Biavati è stato l’attaccante che ha portato il passo doppio alla perfezione. Il pubblico ormai lo aspettava, ad ogni sua fuga sulla linea laterale. E lo aspettava anche l’avversario costretto a fronteggiarlo. Ma non c’era niente da fare. A tutta velocità Medeo eseguiva una specie di saltino per aria, sembrava che volesse passare la palla indietro di tacco. Il difensore rallentava un attimo, Biavati lo saltava toccando la palla col secondo piede e se ne andava.»