Once in a lifetime: Roberto Bolaño

Il 28 aprile 1953 nasce a Santiago del Cile Roberto Bolaño Ávalos, di professione scrittore. Roberto non si fidava del mondo. Aveva imparato l’arte dell’attesa e del dubbio, perché le vicende della vita, quel precoce e dolente peregrinare tra Cile, Messico ed Europa, quella continua fuga da dittature e regimi militari, lo avevano spinto a diffidare delle lusinghe del presente. Roberto viveva un mondo diverso, scandito da idee e ideali. Lo frequentava per provocare, discutere e cambiare, per comprendere e approfondire, per guardare oltre e pensare di lasciare sempre qualcosa a qualcuno. Quel presente difficile, critico e distratto lo avrebbe barattato volentieri con un futuro antico che profumava di battaglie e malinconie. Qualche volta la magia riusciva, qualche altra no, e allora affidava alla macchina da scrivere e ad un brillante senso dell’umorismo il compito di risolvere la partita consegnandosi alla deriva di qualche bella storia.

Uno scrittore riluttante

Definire Bolaño un outsider è un po’ come considerare Cruyff un buon attaccante. Tutto in lui eccelleva, tutto soverchiava ampiamente l’etichetta e i buoni strumenti del mestiere. Roberto era uno scrittore riluttante che si scoprì decisivo e influente solo a distanza di molti anni e di molte pagine. Come Foster Wallace, Bolaño odiava le celebrazioni e i palchi, le convenzioni e i monumenti. Non tollerava chi pontificava da quelle altezze e magari si prodigava munificamente ad elargire ragioni o significati universali. Avesse potuto avrebbe fatto il detective o il poeta, ma il destino lo aveva costretto a impolverarsi le mani con le storie, lo aveva condannato a infilarsi nel labirinto della prosa. E, fatalmente, proprio lì aveva scoperto di poter dare il meglio di sè.

Un’arte rara e fragile

La sua era un’arte rara e fragile. Sapeva di mezcal e caffè, di muffa ed espedienti. Con quel modo visionario e disincantato di raccontare per metafore e ironici paradossi aveva costruito registri originali in perfetto equilibrio tra realismo e finzione, tra verosimiglianza e nonsense. La sua scrittura si era rivelata fresca e sorprendente, capace di praticare linguaggi diretti ma anche di snodarsi attraverso architetture raffinate ed eleganti che guardavano al passato. Di quelle trame divenne un severo esteta, regalando opere straordinarie come “I detective selvaggi”, “Amuleto”, “2666” e “Notturno cileno”, lavori in cui la struttura di base è già di per sé un’intricata opera letteraria, un mirabile intreccio di narrazione e liricità.

Fantasmi clandestini

Nonostante un’irrisolto e fiero ribellismo di fondo, tra le pagine dei suoi libri si agitano molti fantasmi della letteratura sudamericana del Novecento, gli stessi che hanno più volte fatto capolino nei pensieri e nelle ossessioni di Borges e Vargas Llosa, Cortazar a Puig, Reyes e Wilcock. Presenze discrete, clandestine e fugaci, in bilico tra luci e ombre, proprio come lui, perché Roberto si abbandonava alla polemica e alla discussione senza mai sbandierare troppo cultura e talento. Era un animo libero e indipendente che sapeva da che parte stare. Alla citazione preferiva sempre il graffio, alla regole le eccezioni, all’establishment l’irriverenza dell’avanguardia, al punto da fondare, con l’amico e collega Mario Santiago Papasquiaro, anche un movimento clamoroso, dissonante e dadaista.

L’Infrarealismo

L’”infrarealismo”, così lo avevano battezzato tra fumi di mezcal dai tavoli del Café de la Habana di Calle Bucarelli, aveva l’imperativo categorico di rompere l’incantesimo di una liricità distante, sognata e accademica, per riportare le parole sul selciato del quotidiano a servizio di quella parte di mondo che sembravano ignorare. Era una specie di ritorno al futuro. A quello spirito fieramente irriverente e critico degli esordi Bolaño sarebbe rimasto sempre fedele nel corso del tempo disseminando le sue storie di misteri sommersi e di perdenti, di antieroi e di detective filosofi, incerti e insicuri. Roberto rimane un capitolo a parte, una voce fuori dal coro. Perchè fu tra i pochi scrittori che non si prese mai troppo sul serio, perchè rimase sino alla fine un uomo consapevole del proprio talento che ben poco faceva per assecondarlo, un lettore accanito di libri che trascorreva intere giornate alla macchina da scrivere per ingannare il tempo con idee e stratagemmi, senza curarsi del resto, della sua vita e della sua salute, di quanto la malattia gli stava portando via o di quello che ancora gli rimaneva da vivere. Bolaño si è infatti congedato dalle sue storie a soli cinquant’anni, troppo presto per raccontare tutti i sogni di cui era stato capace ma almeno in tempo per lasciarsi alle spalle la mirabile scia di una “stella distante”.
“La mia proposta letteraria è legata direttamente alla mia vita. La mia proposta letteraria è la mia vita. In questo senso riprendo quel che dicevo a proposito della poesia e del rischio. La proposta letteraria, la poesia del poeta, è il poeta stesso. Sempre.”