Once in a lifetime: Jack Brabham

Il 19 maggio 2014 muore a Gold Coast, nel Queensland, John Arthur Brabham, di professione pilota e costruttore automobilistico. Ci fu una fortunata epopea dell’automobilismo in cui le idee e le intuizioni si trasformavano rapidamente in sogni su quattro ruote, senza transitare per forza da investimenti miliardari o da staff degni di una missione Apollo. Bastavano un portafoglio decente ma, anche e soprattutto, mestiere, competenza e una buona dose di visionarietà. Quella a cavallo tra gli anni Cinquanta e i Sessanta fu una delle stagioni più creative dell’automobilismo sportivo, in cui le migliori menti di una generazione si sfidarono sul filo dei secondi e tra le trame di materiali, telai, scocche, motori ed appendici aerodinamiche in una dimensione della competizione ancora del tutto artigianale dove l’officina era luogo di continue innovazioni incrementali e radicali che finivano per rincorrersi allo stesso convulso ritmo dei vertiginosi giri che raggiungevano i motori in pista.

Una scienza inesatta

Pilotare una monoposto era, fuor di retorica, una scienza inesatta, fatta di conoscenze tecniche e motoristiche ma anche di sensazioni, istinto e intuizione. Non fu un caso che molti piloti divennero anche affermati costruttori. Come McLaren e Surtees, ad esempio. Come Jack Brabham. La sua infanzia era scivolata via tra la polvere della Grande Depressione e l’olio di una piccola officina. Quello dei motori fu un irresistibile richiamo. John impara a guidare a soli dodici anni, si interessa di ingegneria e meccanica, è curioso rispetto ai materiali e determinato nell’imparare. Trascorre i lunghi anni della guerra mondiale a riparare i pistoni dei grandi motori d’aereo, studiando i profili alari dei velivoli. E’ un amico a convincerlo a costruire la prima midget car per partecipare ad una manciata di gare del campionato nazionale. Quando questi decide improvvisamente di dare forfait finisce anche per accomodarsi nell’abitacolo. Gli esordi sono degni del suo nome leggendario. Jack è da subito il più veloce del lotto: guida sempre al limite su vetture che sfidano apertamente convenzioni e regolamenti. Alleggerisce i telai, sperimenta soluzioni estreme e nelle gare in salita arriva addirittura a levare i tamburi dei freni andando incontro ad una sonora squalifica. Brabham è un grande incassatore. Alle polemiche non dà seguito, preferendo chiudersi in un diffidente, rancoroso e minaccioso silenzio.

“Black Jack”

Nasce così il mito di “Black Jack”, la leggenda del pilota costruttore ruvido e per niente affabile, duro e rigido in officina quanto in pista, dove non regala mai niente a nessuno. Brabham è un gran brutto cliente: guida nervosamente, chiude tutti gli spazi e non concede mai strada agli avversari, nemmeno in quelle rare volte che il mezzo lo lascia a piedi, perché anche in quei casi si proietta fuori dall’abitacolo e si mette spingere la sua Cooper sin sotto la bandiera a scacchi. Jack è un implacabile “cannibale”: non è nato per fare il gentlemen ma per correre. Possiede la stessa stoffa dei più grandi, quello spirito cinico ed egoista senza il quale è difficile centrare i risultati, che nel suo caso arrivano rapidamente e in serie. Sul finire degli anni Cinquanta approda in Formula Uno e infila subito due titoli iridati al volante della Cooper Climax T51 tenendosi in scia il favorito Moss, Brooks e McLaren. Dopo quelle due straordinarie stagioni arriverà un periodo di appannamento, non solo colpa della vettura ma anche della sempre più agguerrita concorrenza. Jack intuisce che è arrivato il momento giusto e fonda la sua scuderia. Le prime stagioni sono difficili, complesse e tribolate. Brabham fatica a tenere il ritmo dei migliori e si chiude in minaccioso e oscuro silenzio.

Tre titoli mondiali

Il sorriso ritorna nel 1966. La BT19 motorizzata dall’otto cilindri Repco da 310 cavalli si rivela una macchina vincente e soprattutto affidabile. La sorte, questa volta, è assolutamente benigna. Alla terza gara Ferrari manda a quel paese il favorito Surtees e Jack ha finalmente campo libero. Conquisterà tre pole position e quattro vittorie consecutive. “Black Jack” si aggiudica così il suo terzo titolo mondiale, il primo su una vettura ideata, allestita e costruita interamente da lui, ed entra nella leggenda dei motori. Tenta il bis l’anno successivo ma il titolo finisce per una manciata di punti al compagno di squadra Denny Hulme. Sulla linea del traguardo dell’ultima gara, il Gran Premio del Messico che comunque consegna a Jack il titolo costruttori, scende dalla monoposto per andare incontro a Hulme, fresco campione del mondo, gli stringe la mano e lo licenzia con ruvido rispetto, perché lo stile veniva, comunque e sempre, prima di tutto.

Una gloriosa scuderia

Brabham si avvia a chiudere una grandiosa carriera che conterà 14 vittorie e 13 pole in 126 gran premi. Jack cede la scuderia al socio Tauranac ed esce dalle competizioni attive. Impone solo un vincolo alla cessione, che quella scuderia mantenga per sempre il suo nome. Così sarà sino all’era moderna. Brabham Racing Organization significherà infatti per tutti gli appassionati ancora due titoli mondiali e l’autorevole firma di grandissimi piloti come Piquet, Lauda, Patrese, Watson e Reutemann. Jack se n’è andato due anni fa ad ottantotto anni compiuti, dopo una lunga lotta con la malattia. Il suo nome rimarrà per sempre nell’immortale e ristretto novero dei più grandi come il primo pilota a conquistare un titolo mondiale su una vettura interamente ideata e costruita da lui. Chissà dove sarebbe arrivato se avesse fatto solo quello. “Jack arrivava al Gran Premio dopo una settimana di duro lavoro in officina”, osservò infatti l’amico Derek Gardner, “Si fosse dedicato solo alle corse, avrebbe certamente dominato alla stessa maniera di Fangio.”