Once in a lifetime: DJ Shadow

Il 26 giugno 1972 nasce a Hayward, California, Joshua Paul Davis, di professione deejay, musicista e produttore discografico. Nell’affascinante percorso delle infinite derive stilistiche di cui si è sin qui composta la modernità sonora vi sono stati momenti in cui le cose hanno improvvisamente preso inaspettate direzioni. Il più delle volte queste rare spinte cinetiche sono state  il prodotto di qualche visione dei discografici, altre solo il frutto del caso o di qualche improbabile e fortuito crocevia. Ciò nonostante, proprio da lì sono spesso originati sodalizi che, pur bruciando rapidamente al sacro fuoco della creazione, sono divenuti determinanti per le sorti di ciò che li avrebbe seguiti.

Turning points

Come il campo espressivo dell’arte e, più in generale, tutto l’ambito creativo della cultura e dell’innovazione, anche la storia della musica è una successione di tanti piccoli “turning points”. La musica come noi la conosciamo, quella espressione di un mondo in vendita e pronto al consumo, è il risultato dell’oscuro apporto di un numero ristretto di pionieri che hanno aperto strade senza uscire dall’ombra, spesso senza capitalizzare denaro o fama se non quella postuma attribuitagli da qualche zelante biografo. Così talvolta le loro visioni sono state messe all’incasso da chi è invece arrivato fatalmente dopo, da chi si è smarcato dal gruppo con tempismo e scaltrezza, soprattutto da chi ha mostrato grande lucidità nel comprendere rapidamente dove avrebbe infine portato quella traiettoria e quali conseguenze avrebbero innescato.

Assetti inediti e originali

Pur solcando, quindi, binari già posati in precedenza, questi artisti hanno avuto la capacità di mettere assieme idee diverse, rielaborandole e trovando assetti inediti e originali. E’ questo certamente il caso di Joshua Davis, in arte DJ Shadow, che, pur percorrendo sentieri già tracciati, ha avuto la singolare prontezza di presentarsi puntuale all’appuntamento con il destino divenendo l’iconico riferimento di un’intera scena. Nel 1996, quando il suo primo epocale lavoro viene distribuito nei negozi di mezzo mondo, la deejay culture sta timidamente pulsando nei più esclusivi centri creativi. Solo pochi, però, hanno compreso che il futuro passerà da lì, che l’arte del break e del sampler, che peraltro riprende attitudini creative di un decennio indietro, non hanno confini e che si è ormai giunti sull’orlo di un nuovo e straordinario precipizio stilistico.

La rivoluzione del dance floor

La rivoluzione del dance floor abbatte barriere, mastica stili e desinenze, recupera capolavori e dischi oscuri, li piega e li maltratta restituendoli, frammentati e spezzati, a nuova vita. L’uso creativo dei campionatori non è più solo un vezzo o un’acrobatica abilità da turntable. La dj revolution è una nuova smagliante filosofia. E’ la vecchia idea del cut-up che riaffiora in una nuova e temibile rielaborazione, è una faccenda di taglio e cucito che nulla ha a che vedere con sartorie o tappezzieri. Quel nuovo mondo in movimento rende improvvisamente plausibile l’impossibile, spalanca le porte alla creatività, libera energie e intelligenze. Non quindi solo perizia e talento, quanto piuttosto l’idea forte di una continua contaminazione tra modelli e percorsi, l’ambizioso progetto di una cultura della contaminazione che abbatte barriere e mescola generi e stagioni distanti tra loro.

“Endtroducing …”

“Endtroducing …” si snoda su queste coordinate, non solo spargendo aromi ed essenze diversissime, ma inseguendo profili compositivi inediti e affascinanti: dischi che suonano dischi, battute incise cinquant’anni prima che riprendono forma e respiro in un contesto differente e alternativo, con buona pace dei guardiani del diritto d’autore. La vera rivoluzione è servita, e, per come si presenta, suona come l’accanita vendetta del post-moderno. L’arte del “taglia-e-cuci” di Joshua apre finalmente la frontiera e lancia messaggi chiari e forti. D’altro canto cosa si può pensare di un percorso sonoro che mescola brandelli di frasi e riff dei T-Rex, di Alan Parsons Project, di Billy Cobham e dei Led Zeppelin, che cita con leggerezza suggestioni vintage e cinematiche e che piega le robuste linee di basso del P-Funk alla rigorosa matematica elettronica dei Kraftwerk. Quella confezionata in un tripudio di instabili sequenze ritmiche è musica di un futuro prossimo e globale, che respira atmosfere tese e inquiete, che incrocia pattern e assalti ritmici all’arma bianca, che mescola generi apparentemente inavvicinabili come il be bop e il doom metal. Questa furiosa babilonia futurista lavora bene sui piatti del dancefloor, è merce di prim’ordine per far muovere gambe, cervello e, come tradizione vuole, anche il nobile posteriore.

Un “classico” del genere

Il lavoro di DJ Shadow ha il passo epico dell’opera prima, del “classico” di genere, quello consuetamente destinato a sorprendere anche a distanza di anni raccontando quel pezzo di mondo che si è trascinato via nei suoi solchi in una nuova eccitante stagione di crossover stilistico. Joshua rimarrà ancorato a quell’approccio anche quando le cose della vita lo spingeranno a rivolgere lo sguardo verso nuove inedite sfide incrociando break e intuizioni con James Lavelle ed altri amici del progetto U.N.K.L.E.. Su quella strada ci sarà spazio per nuovi moniker e impegnative crisi d’identità, derive sperimentali e un bella collezione di notabili e radicali remix. Negli anni però Joshua terrà sempre fede ad una parola mai data. Pur rimanendo in campo a segnare il territorio, DJ Shadow è infatti riuscito a fare della sua visione e della sua esuberante attitudine uno stile composito e meticcio in costante evoluzione, un marchio di fabbrica indefinito nelle forme ma che si riconosce al volo per la classe, il fiuto compositivo e l’efficace intreccio asimmetrico delle ritmiche. Per lui la sfida non conosce limiti ma coincide con il prossimo set.