Once in a lifetime: Jair da Costa

Il 9 luglio 1940 nasce a Santo André, stato di San Paolo, terra brasileira, André Jair da Costa, calciatore di professione. André non riusciva a stare fermo. Era un ragazzino svelto e vivace, in perenne movimento, sempre pronto a correre e a rincorrere palloni impossibili. La sua infanzia non era stata così piacevole e prima che ad una palla Jair aveva imparato a dare calci alla fame e alla sfortuna. Era così finito giovanissimo a lavorare in fabbrica. Ma solo di giorno, perché non appena usciva da quel lungo capannone filava al campetto a giocare a pallone con i suoi amici sino a quando il buio inghiottiva il quartiere.

Puro divertimento

Jair giocava per puro divertimento. Il lavoro era tutta un’altra cosa, una faccenda da grandi a cui si era rassegnato solo per portare a casa il pane cercando di dare una mano in famiglia. Non erano certo bei tempi, quelli, e mica si poteva andare tanto per il sottile. Così, quando gli osservatori del Portuguesa dos Desportos di Canindé vennero a bussare alla porta, André rimase impalato sull’uscio a guardarli, come fossero astronauti. Quei tizi distinti non avevano niente da vendere né pareva avessero niente a che fare con la Polícia Militar. Sorrisero, guardandolo negli occhi. Gli parlarono di futuro, di allenamenti e maglie, gli raccontarono di folle e stadi, dei suoi idoli e dei trofei. Lì per lì non comprese, ma poi scorse le lacrime di commozione dei genitori e capì. La sua vita stava per cambiare. A lui sarebbe bastato anche solo smettere di andare ogni mattina in quel polveroso capannone, sarebbe stato più che sufficiente svegliarsi al primo sole e rincorrere un pallone su un campo in erba. Quello che quei signori gli stavano raccontando pareva un sogno. Sarebbe bastato giocare ogni giorno per fare di lui il ragazzino più felice del suo quartiere, figuriamoci se poi per farlo veniva addirittura pagato.

Dribbling funambolici e gracile leggerezza

Quei due primi anni con la Portuguesa furono leggendari. Dopo poche partite la stampa azzarda paragoni scomodando addirittura il grande Manè. Di Garrincha Jair possiede infatti, lo stesso dribbling funambolico e quell’inconsapevole gracilità che lo rende leggero come una piuma e che gli fa saltare gli avversari come fossero birilli. Ma le somiglianze finiscono qui, perché Manè aveva un baricentro tutto suo e un paio di gambe fuori squadra. Curiosamente sarà proprio a Garrincha che il giovane André andrà a fare da riserva ai Mondiali cileni del 1962. Jair con quella Seleçao non gioca nemmeno una partita, ma in allenamento dà spettacolo. L’eco delle sue gesta si sparge rapidamente e attorno a lui cominciano a danzare come mosche gli osservatori di diverse squadre europee. Lo nota anche il grande Herrera con cui scambia qualche cortesia poco prima di Brasile-Spagna a Viña del Mar.

Una storia tutta italiana

Il Milan però gioca d’anticipo e brucia tutta la concorrenza. Lo chiama in Italia per un provino, ma i tecnici sono incerti. Certo il ragazzo è bravo, ma troppo gracile. Grazie, sarà per la prossima volta, prova a ripassare tra qualche anno. I rossoneri lo scartano in favore di José Germano de Sales, acquistato a peso d’oro dal Flamengo e poi rapidamente dirottato verso altre squadre. Ma nel calcio come nella vita ogni lasciata è persa, e così Jair viene immediatamente avvicinato dai lesti cugini interisti che non si fanno sfuggire la presa, anche perché nel frattempo in panchina si è accomodato un suo autorevole estimatore, il mitico “mago” Herrera, in uscita dal Barcellona e pronto ad inaugurare un ciclo da leggenda. Ma far giocare Jair è complicato. L’Inter ha già i suoi stranieri e non lo può mandare in campo. Ci sarebbe però la scorciatoia degli oriundi dal doppio passaporto. Helenio, nella sua proverbiale furbizia latina, prova a forzare la mano millantando un’improbabile vicenda di antiche discendenze venete. Jair avrebbe infatti una bisnonna sperduta dalle parti del Polesine, ma nessuno sa nulla, nemmeno André per inciso, e la Federazione, una volta tanto, si dimostra inflessibile. Tocca aspettare, quindi, almeno l’autunno, sino a quando Moratti cede Hitchens aprendo finalmente le porte di San Siro al diamante brasiliano.

L’era Moratti e il tricolore                                                                                                                                                   

Jair va in campo per la prima volta con la maglia nerazzurra all’ottava giornata di campionato a Marassi contro il Genoa. Segna dopo soli due minuti di gioco uno splendido gol e la leggenda comincia a prendere fiato. Da quel momento sino al termine della stagione Jair veste la maglia titolare altre 27 volte, realizzando 10 reti e conquistando il titolo tricolore, il primo dell’era Moratti. Quei primi anni nerazzurri diverranno storici. Jair non solo si rivela un attaccante veloce e prolifico, ma anche determinante. Sarà infatti un suo tiro, viscido e velenoso, scoccato dalla lunga distanza, a trarre in inganno il portiere del Benfica Costa Pereira, in una notte milanese di acqua e vento del maggio 1965, infilandosi beffardamente in rete alle sue spalle e consegnando, così, all’Inter la seconda Coppa dei Campioni. André rimarrà in nerazzurro fino al 1967 e, poi, nuovamente dal 1968 al 1972 vincendo quattro scudetti, due Coppe dei Campioni e due Coppe Intercontinentali. Ci sarà anche spazio per una breve parentesi romana e per un brillante ritorno in patria con la maglia bianca del Santos, con cui si aggiudicherà nel 1973 un Campionato Paulista. Jair chiuderà la carriera in Canada con i Windsor Stars.

La “freccia nera”

Appesi gli scarpini al chiodo, André tornò al suo vecchio quartiere ad allenare i ragazzini aprendo un frequentatissimo centro sportivo. E’ rimasto nel giro e si sente ancora con i suoi vecchi compagni, con Suarez e Corso, a cui ogni tanto segnala ancora qualche buon talento, spiegando a tutti che nel calcio il segreto è crederci sempre, anche quando sembra impossibile. Tra tanti motivi di orgoglio, Jair ne può vantare almeno due di assoluto rilievo. Fu infatti il primo giocatore di colore del campionato italiano e, per tutta la carriera, è rimasto con i piedi saldamente piantati al suolo, curiosa circostanza per un attaccante soprannominato “freccia nera”. Jair fu un grande professionista ed un campione vero, dentro e fuori gli stadi. Per lui, in fondo, il calcio rimase sempre e solo un gioco.