Once in a lifetime: Bernard Hinault

Il 14 novembre 1954 nasce a Yffiniac, Cotes d’Armor, in terra di Bretagna, Bernard Hinault, di professione ciclista. Bernard ha vinto tantissimo. Nel corso di dodici anni di agonismo è salito sul gradino più alto del podio per ben 216 volte ed è stato l’unico corridore ad aver vinto due volte le tre grandi corse a tappe (il Tour, il Giro e la Vuelta). Ciò nonostante, Bernard non ha mai fatto breccia del tutto nel cuore dei tifosi. Colpa, forse, di un carattere roccioso e severo come gli strapiombi del Finistère, di quell’austero mulinar di pedali, o, con tutta probabilità, di tutti quei continui successi. Perchè vincere troppo non guadagna mai simpatie. Capita infatti spesso che una vittoria conseguita sul campo con grande rigore e disciplina non trovi l’adeguato riconoscimento. Perchè vincere troppo o in maniera troppo eclatante, magari dall’alto di una palese superiorità, porta male. Lo sanno tutti i più grandi di molte discipline sportive, dal ciclismo all’automobilismo, dall’atletica al nuoto. Colui che stravince alla lunga non piace, non stuzzica la fantasia e non compiace le umane tensioni, che spesso finiscono per nutrirsi di censurabili pulsioni. Anzi, finisce adirittura per evocare quelle più spettrali e negative. Così il vincitore seriale rimane relegato in un mondo altero e lunare, fatalmente distante da quello frequentato invece da un’umanità invidiosa e rancorosa, capace di grandi slanci come anche di infinite meschinità. Fu proprio questo il mondo solitario che toccò in sorte a Bernard Hinault.

Uno stile da “Tasso”

Bernard ha abitato un ciclismo appena diventato orfano di grandi campioni come Merckx e Gimondi. Hinault si è cimentato con due diverse generazioni di ciclisti, l’una prossima al ritiro, l’altra ancora troppo giovane e acerba per trovare un’apprezzabile continuità di risultati. Anche per questo, Bernard ha raramente trovato rivali alla sua altezza, soprattutto nelle corse a tappe, quelle più faticose e massacranti dove serve non solo forza ma anche grande tecnica, abilità e visione. Bernard si è così trovato a spingere sui pedali sulla linea di confine tra un ciclismo degli eroi ed uno dei campioni, in bilico tra il fragile balenare di imprese gloriose e la ferrea programmazione della scienza. Ma, per la verità, Hinault non appartenne mai a nessuno di questi mondi. Perché Hinault correva alla sua maniera, con diffidenza e acume tattico, sempre in funzione del risultato. Per questo i suoi successi ordinari e ripetuti innervosivano tanto la stampa, a caccia di un genio sregolato da annegare in un fiume di inchiostro. Quel fastidioso soprannome di “Tasso” arrivò da lì, da quello stile mimetico e dimesso. Perchè Bernard era capace di nascondersi, per chilometri e chilometri, nel ventre del gruppone, protetto da decine di maglie, ruote e raggi, all’ombra dei gregari, come all’interno di una tana, salvo poi scattare rabbiosamente all’improvviso rifilando severi distacchi ai colleghi che sin lì avevano speso tutte le loro preziose energie per fare l’andatura e cercare di guadagnare metri,nella speranza di metterlo in difficoltà. In questo Hinault divenne uno specialista, un maestro assoluto, ineffabile e implacabile.

Potenza e regolarità

Hinault vinceva grazie a regolarità e potenza, pedalata dopo pedalata. Risparmiava energia quando poteva, dosava lo sforzo, rintuzzava gli attacchi e si preparava in silenzio a sfiancare ogni resistenza. Bernard pedalava indossando sempre la maglia gialla di leader. In perenne controllo e con spietata intelligenza. Ma tutto questo non gli giovò mai. La mancanza di clamorose rimonte e di imprese leggendarie, come quelle che la retorica celebra, ad esempio, al cospetto dei ripidi passi alpini e dei versanti pirenaici, unitamente a questa sua fredda, cinica e prepotente superiorità, figlia dello stesso acume tattico di Merckx, il “Cannibale, non gli guadagnarono simpatie, nemmeno da parte dei suoi colleghi. Ciò nonostante Hinault vinse ovunque, su qualsiasi terreno e con qualsiasi tempo, senza però mai colpire l’anima e l’immaginazione dei tifosi, che anzi gli  rimproverarono spesso di non amare troppo il ruvido pavè delle grandi classiche del Nord, sorta di amor patrio dell’orgoglio ciclistico transalpino. Nonostante tutto, smentendo qualche invidiosa malignità, Hinault si dimostrò sempre campione serio e motivato. Soprattutto, fu tra i pochi a metterci sempre la faccia, con coraggio e grande senso di responsabilità, anche quando si trattò di alzare la voce per difendere gli interessi di tutti i corridori contro lo strapotere degli sponsor, di organizzatori e federazioni. In quelle circostanze, a dispetto di soprannome e maldicenze, Hinault non andò a nascondersi nella pancia del gruppo, ma prese posto là esattamente dove doveva essere: in testa, ovviamente, davanti a tutti.