Once in a lifetime: Captain Beefheart

Il 17 dicembre 2010 muore a Arcata, California, Don Glen (Van) Vliet, altrimenti noto con lo pseudonimo di Captain Beefheart, di professione musicista, autore e pittore. Van Vliet era un outsider, un talento imprevedibile e controcorrente, enigmatico e scontroso. Viveva ai margini dello showbiz, odiava il mainstream, temeva i giornalisti e, soprattutto, non tollerava l’ipocrisia interessata dell’industria musicale e il mondo dei concerti. A tutto questo lui preferiva l’arte e il suo mondo di eccentriche stranezze.

Un talento incorreggibile

Don faticava ad avere un rapporto decente anche con il suo affezionato pubblico. Ciò nonostante il “Capitano” è stato tra le anime musicali più influenti dello scorso secolo, perché dalle sue mani sono passate alcune delle più importanti e coraggiose sperimentazioni d’avanguardia che solcarono il decennio a cavallo tra i Sessanta ed i Settanta. Don veniva da Glendale, in California, dove era nato nei primi anni del secondo conflitto mondiale. Sin da bambino era stato attratto dall’arte, dalla pittura e dalla scultura. Possedeva talento e una non comune capacità grazie alla quale si guadagnò il plauso degli insegnanti ed alcune borse di studio. Disgraziatamente, Don non ebbe però modo di utilizzarle per l’intransigente opposizione dei genitori. Le pressioni familiari impressero così alla sua giovane vita una direzione inattesa e sgradita. Ma, come spesso capita, ciò che pensiamo essere definitivamente alle nostre spalle si ripresenta invece all’improvviso sotto mutate forme. Fu così che il giovane Vliet, che era stato costretto a rinunciare a tutte le sue attitudini espressive, si appassionò alla musica e alle vibrazioni oscure del blues “primitivo” del Delta e del jazz. Ma più che quel viscerale amore fu un singolare incontro a mandare all’aria ogni piano. Il destino prese infatti le stralunate sembianze di un bizzarro batterista di nome Frank Zappa e lo trascinò via con sé. In poco tempo quel sodalizio adolescenziale si trasformò in uno stravagante laboratorio di assortite e surreali follie sonore da cui Don faticherà a smarcarsi per il resto del suo percorso. Fu proprio per merito dell’amico Frank che Don trovò la sua strada nel mondo, abitando stabilmente un inquieto confine tra la vita reale e un universo popolato da figure metaforiche, trovate sceniche, calambour, creature improbabili e apparizioni mistiche.

“Capitano Cuor di Bue”

Il “Capitano Cuor di Bue” fu un pioniere delle emozioni. Aprì sentieri mai battuti e mostrò che anche il rock possedeva un’anima alternativa e un vasto ventaglio di registri. Grazie a un’esuberante vena creativa, Don fece della sperimentazione il suo credo, mescolando cose sin lì impensabili. I suoi vertiginosi e atipici brani sembravano possedere la stessa anima di una tela di Pollock, i graffi di Robert Johnson o il fluido magnetico delle sensazionali fughe di Coltrane. La sua musica non aveva nulla a che spartire con il dorato ambiente discografico, con i produttori e i ricchi budget, le grandi arene affollate e gli happening. Ciò nonostante, Don dovette, in qualche maniera, farvi i conti. Quella del “Capitano” era musica buona per perdersi tra le nuvole e mettersi ad inseguire qualche fuggevole e fragile architettura. Le sue composizioni, pur sfidando apertamente i pattern dell’omologazione, raccontavano radici profonde, lucide visioni e avventate strategie. Don ha trattato il blues e il jazz alla stessa maniera di un cubista spietato, li ha sezionati in tante diverse parti che ha rimontato in sequenza senza ricorrere ad alcuno schema se non quello offertogli dall’istinto e dalle emozioni.

Una spettacolare ibridazione stilistica

Nei suoi dischi si respirava una spettacolare ibridazione tra rock, blues, umori free jazz e tensioni urbane. Van Vliet parlava un linguaggio nuovo e diverso da quello del resto del mondo. Giocava con la scrittura, il ritmo e i canoni della forma canzone, destrutturando a piacimento le desinenze stilistiche. Le sue opere temerarie, esagerate, complesse e di difficile lettura sono il manifesto di un primitivismo espressivo che prese quindi corpo e forma nella successiva attività pittorica. Captain Beefheart amava mettere in discussione le geometrie e la linearità: i suoi brani erano un’aggressiva marmellata stilistica, un coraggioso mix di suoni rumorosi e disarmonici che si lasciavano assediare da un ricco catalogo di scherzi, provocazioni, istrionismi, parodie e maligne ironie. Van Vliet era un piccolo grande genio, un artista eccentrico, completo e totale. Il “Capitano” non faceva solo musica ma liberava fobie, frustrazioni e allucinazioni, rincorrendo le stesse tensioni ideali che avevano scosso dal sonno i grandi artisti del surrealismo e del dadaismo. Fu grazie a questo spirito ostinato e contrario che Don ci lasciò in eredità un piccolo catalogo di immortali provocazioni sonore distantissime dal rock e dal disimpegno a buon prezzo. Le sue articolate trame per anime forti e organi caldi fecero dire a John Peel che “se c’è stato qualcosa nella storia della musica popolare che potrebbe essere descritto come un’opera d’arte, quella è probabilmente l’opera omnia di Captain Beefheart”