Once in a lifetime: Giancarlo Cadè

Il 27 febbraio 1930 nasce a Zanica, in terra bergamasca, Giancarlo Cadè, di professione calciatore e allenatore. Di quel calcio ormai lontanissimo, fatto di strette di mano, di rapporti autentici, scambi sanguigni e, talvolta anche di qualche amatoriale scaltrezza, Cadè fu assoluto protagonista.

Cinquanta intensi anni di calcio

Giancarlo ha percorso da calciatore, prima, e da allenatore, poi, cinquanta intensi anni di football. Dopo aver calcato con buoni risultati i campi della massima serie nel ruolo di centrocampista dai piedi buoni, arrivando anche a vestire l’azzurro della Nazionale in occasione di una vittoriosa partita contro gli Stati Uniti, Cadè aveva subito risposti al richiamo della panchina. Non aveva fatto fatica ad accomodarsi a bordo campo perché, in realtà, quel ruolo lo praticava già da tempo. Quel mestiere alchemico lo aveva infatti frequentato nel fango del campo e nello spogliatoio. Giancarlo aveva due pregi assoluti: sapeva leggere in tempo reale la partita, intuendone gli snodi e indovinando le mosse degli avversari, ed era altrettanto abile nel trattare l’imponderabile e mutevole materia umana. Serio, riservato e composto, Cadè sapeva ascoltare tutti gli umori dello spogliatoio. Era un maestro nel trovare i giusti incastri, nel comprendere gli umori, nel tessere relazioni plasmando caratteri e costruendo così gruppi coesi e motivati. Aveva buon occhio per il talento. Apparteneva a quella vecchia scuola che sapeva sempre distinguere la genialità. Grazie anche a quel modo pacato ma pur sempre ruvido e determinato riusciva a far convivere in una squadra qualità e quantità, estro e sostanza, gestendo le bizze del veterano come anche l’inconfessabile paura dell’esordiente.

Un vero allenatore

Cadè dirigeva la squadra come fosse una piccola orchestra, ne ispirava i momenti migliori, assecondandone gli stati di grazia e leggendo puntualmente sbandamenti e difficoltà. E quanto a tattica ed a capacità di gioco Giancarlo aveva pochi rivali. Le sue squadre giocavano tutte un calcio solido e ben piantato, che faceva di necessità virtù e che, pur puntando sempre al risultato, di tanto in tanto, respirava la travolgente vertigine di trame spumeggianti e attacchi arrembanti. Allestiva squadre motivate che masticavano sempre classe e tecnica. Le sue erano scelte a lungo ponderate. Giancarlo cercava infatti giocatori che avessero respirato le atmosfere del grande club ma che poi avessero finito per pagare lo scotto di qualche mancato appuntamento con il destino. Lavorava a fondo sulla voglia di riscatto. La recuperava restituendogli il talento e la dignità che meritava. Ecco perchè le sue squadre, solide e ben attrezzate, diventavano, nei loro giorni migliori, brutti clienti per tutti gli squadroni più blasonati. Nel giro di qualche anno Cadè divenne così una sorta di specialista della “zona calda”, un quotatissimo e ricercato mago della salvezza e della promozione. Fece bene a Pescara, a Bologna e a Mantova, benissimo a Verona negli anni del magico Hellas di Busatta, Mascetti, Bergamaschi, Luppi e Zigo-gol. Lasciò il segno anche a Torino nel biennio 1969-1971, quando portò la squadra granata a ridosso delle prime. Gli mancò veramente poco per fare il grande salto, forse anche solo un pizzico di fortuna. Le squadre che mandava in campo erano solide e coperte ma anche estremamente rapide e fantasiose sul fronte d’attacco. Quelle formazioni diventavano ostiche da affrontare soprattutto nelle ultime giornate del campionato, magari a salvezza incassata, quando andavano in campo per il gusto del gioco, per la bellezza e la gioia del calcio. Fu così che nell’immaginario collettivo divenne “l’uomo del destino”, colui che per ben due volte si prese la briga di scucire dalle maglie delle “grandi” lo scudetto che pensavano di aver già conquistato.

Un “giant-killer”

Se fosse nato in Inghilterra, in qualche uggiosa periferia suburbana di qualche città industriale, questo suo singolare talento di “giant-killer” lo avrebbe spinto al cospetto dei maggiori palcoscenici, magari sin sotto le torri di Wembley a giocarsi la Coppa d’Inghilterra con qualche squadrone come il Liverpool o il Manchester United. Perché, da quelle parti, il calcio vive di imprese come le sue. Perché il calcio racconta proprio questo, la favola di qualche bistrattata e piccola squadra di provincia che affronta la grande blasonata nell’atteso giorno di gloria e la mette sonoramente al tappeto, con grande umiltà e determinazione. Per il massimo rispetto del pubblico e per il buon nome dello sport. Ne sanno qualcosa dalle parti di Milano che ancora si leccano le ferite. Perchè in un amaro giovedì di giugno del 1967 l’Internazionale del Mago Herrera lasciò sul campo del suo Mantova, grazie anche ad una clamorosa papera di Sarti, uno scudetto praticamente già vinto. Non furono però solo i nerazzurri a piangere lacrime amare. Sei anni più tardi, in una calda domenica di maggio, toccò infatti anche ai cugini rossoneri finire fragorosamente al tappeto, a soli due punti dall’obiettivo, gettando alle ortiche l’agognata “stella” nella “fatal” Verona di quel magico e incantato cinque a tre. Cadè era un maestro di football e di vita. Ne insegnava con serietà i rudimenti, ne diffondeva, con passione e semplicità, l’umida essenza, inseguendone spesso l’impalpabile anima, senza nessun’altra alchimia se non una profonda e ineguagliata passione. Giancarlo era troppo serio e impegnato sul campo per occuparsi del mondo esterno, era troppo concentrato sulla sua squadra per trattenersi dal quotidiano scontro con sanguigni presidenti e zelanti tecnici. Perchè alla fine, per lui, una sola cosa contava e quella cosa era la stessa per cui il pubblico affollava gli spalti dello stadio. Anche per questo motivo il suo nome è entrato nella leggenda di un calcio che non esiste più.