Once in a lifetime: Jacques Mayol

Il 1 aprile 1927 nasce a Shanghai Jacques Mayol, apneista per professione e vocazione. L’idea di calarsi a picco nel “grand bleu” appartiene ad un universo di sensazioni profonde e inafferrabili, diverse rispetto a quelle fisiche del gesto atletico. Perché danzare appesi nel buio verticale di un’infinita colonna d’acqua è un’esperienza umana che invita a riflettere, che avvicina al senso profondo delle cose, che innesca metafore e stimola il passo leggero di pensieri, lettere e poesia. Ma quella dell’apneista è una passione rischiosa che ha a che fare con il limite e l’ignoto, con il precario equilibrio di un mondo interiore e con la forza di gravità, con la disciplina e il controllo. Se la discesa è un viaggio nell’anima e nei suoi anfratti più nascosti, la risalita regala invece una seconda chance, una rinascita, come tornare alla luce e ad un’ordinaria condizione di dolore e fatica, con i polmoni che urlano e l’aria che va ad espanderli imponendo le proprie ataviche condizioni.

Un’animale d’acqua salata

Jacques era un animale d’acqua salata. In mare ci era cresciuto e tra le onde era diventato adulto. Ne aveva appreso i segreti imparando la fine arte di andare a fondo senza farsi troppo del male. Perché Mayol in superficie non riusciva proprio a stare. Jacques era, in tutti i sensi, un “hombre vertical” a cui la dimensione orizzontale, buona per lasciarsi cullare dal leggero moto delle onde, faceva difetto perchè priva di senso, di logica, fascino e attrattiva. Mayol abitava le profondità e trovava pace solo quando scrutava di profilo, in caduta libera, quel lungo pozzo nero che lo chiamava a sé attirandolo verso il basso, sin quasi sul fondo. Tra tanti altri, Jacques disponeva di un dono assolutamente speciale, quello di riuscire a stabilire legami empatici con l’ambiente che lo circondava, dai pesci ai delfini, dalle meduse ai plancton. Fu in omaggio a quella sua strana natura ibrida che, sin dalla più tenera età, i compagni cominciarono a chiamarlo “l’anfibio”. La sua strada era già tracciata.

Indagare la profondità

Mayol ha trascorso un’intera esistenza ad indagare la profondità. Tuffarsi nel profondo blu trattenendo il respiro e dosando ogni minima energia ha lo stesso carattere della sfida che rapisce l’alpinista di fronte alla vetta innevata che campeggia sopra la sua testa. Ma per penetrare quella densa e liquida oscurità servono nervi saldi, grande controllo e disciplina. Perché affrontare il buio è come guardarsi allo specchio, come fare i conti con dubbi e incertezze, con le piccole quotidiane debolezze della nostra arrogante vanità. Scendere è sempre una mera questione di umiltà e consapevolezza. Significa, nella buona sostanza, cercare risposte dove altri non vanno, vuol dire varcare la soglia di un mondo parallelo, freddo e ostile quanto naturale. Se scendere in verticale lungo un cavo, magari accompagnati ad una zavorra, è un rischio d’altri tempi, risalire, poi, lo è ancora di più. Perché l’ansia con cui il corpo cerca l’ossigeno della superficie mette nei guai, perché quella fame d’aria che mangia il petto complica le cose, perché la fretta gioca sempre brutti scherzi. Capita, infatti, spesso, che, proprio quando si sia ormai in vista del traguardo e dell’agognato cono di luce, il destino imponga di saldare il conto di tanta temerarietà. Nel mare, come nella vita.

Una gara con se stesso

Per Mayol la sfida degli abissi era una gara con se stesso e i propri limiti. Era il miglior modo per tutelare la propria libertà, per sottrarre e valorizzare, per discernere il superfluo e tentare finalmente di arrivare alla radice delle cose, alla loro essenza. Il viaggio di Mayol è andato oltre le esaltanti ed epiche tappe dei suoi tanti record nell’eterna sfida con l’amico Maiorca. La vita gli ha regalato uno spirito indomabile ed è stato quindi merito di quel sacro fuoco se ha avuto modo di sperimentare i mestieri più diversi, dal reporter al cercatore di tesori, dal pianista all’attore, dal giornalista al sommozzatore, senza fermarsi mai. Tutto in lui lasciò traccia, anche se nulla rimase mai in superficie. Ma il lascito più importante Jacques lo donò alla scienza per via del determinante contributo prestato attraverso l’esplorazione, l’analisi e lo studio del comportamento umano in quelle condizioni sommerse, avverse ed estreme. Quegli studi aiutarono altri folli temerari come lui a spingersi nello spazio e negli abissi più profondi.

Un romantico avventuriero

Mayol rimase sino in fondo un romantico avventuriero. Si era innamorato di tutti i luoghi in cui si era tuffato ma fu solo l’Elba, con i suoi splendidi fondali dove aveva infranto il muro del “meno cento metri”, a rimanergli nel cuore. Proprio lì, a Calone, decise di ritirarsi all’avanzare dell’età. Dopo aver passato l’intera esistenza a forzare i limiti si era infine arreso al declino e all’inesorabilità del tempo, perché non sarebbe mai riuscito a vincere quella battaglia. Stretto nella morsa di una profonda depressione, decise così di chiudere anzitempo la partita con il destino. Lo fece, ancora una volta, a modo suo, in silenzio, con discrezione, prima che fosse troppo tardi, alla vigilia di Natale del 2001. Le sue ceneri vennero disperse al largo delle acque toscane. La sua vicenda umana, l’incredibile sfida sportiva ingaggiata con Maiorca e quel suo modo unico e assoluto di prendere la vita ispirarono all’amico regista Luc Besson la storia di “Le Grand Bleu”, un bellissimo affresco cinematografico di vite tese e instabili, consumate dall’ansia di sfidare e superare il limite. Quel film e quelle immagini sono, ancora oggi, un toccante e poetico omaggio alla sua memoria.