Once in a lifetime: Nestor Rossi

Il 10 maggio 1925 nasce a Buenos Aires Néstor Raúl Rossi, di professione calciatore e allenatore. Ci fu un’epoca in cui era necessario attraversare l’Atlantico se volevi assaporare il miglior football del mondo. Più spettacolare di quello che giocavano i maestri inglesi, più veloce di quello praticato dai tedeschi, più imprevedibile e creativo di quello che erano soliti ammansire spagnoli e italiani. Quello sudamericano era un calcio ancora più totale di quello che avrebbe sconvolto l’Europa trent’anni più tardi prendendo coraggio e rincorsa dalle terre basse d’Olanda. Quel calcio mirabile era quello de “La Maquina”, quel calcio era quello giocato dal River Plate. La squadra di Buenos Aires è da sempre la casa del football, l’accademia argentina della pelota, roba per gente che ama parole e poesia. Era nata da gambe italiane e polmoni inglesi. Era figlia del porto e del mare: tra le sue fila è transitata un’infinita genia di allenatori gentiluomini e giocatori eleganti e di gran classe, dallo sterminato catalogo di trucchi, versi, finte, milonghe e doppi passi. Chi veste la maglia del River deve subito abituarsi a quel rango, perché come raccontano tutti i vecchi del barrio Nuñez, qualunque cosa accada quella maglia bianca e rossa è destinata a vincere. Sempre.

“La Maquina” del River

Quel River a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta dettava legge. Merito di uno schema tattico che riproduceva con qualche piccola variante il “Sistema” che andava per la maggiore in Europa. Solo che dalle parti del Monumental facevano gli originali e si erano inventati di invertire le lettere. Avevano scoperto che la trovata del sottosopra funzionava alla grande. Così la squadra bianco-rossa teneva il campo con un rischioso “WM” rovesciato, impiegando due soli difensori centrali e un vistoso affollamento di mezze punte e mezze ali che ruotavano freneticamente attorno alla linea di centrocampo senza dare mai riferimenti agli avversari e facendo letteralmente impazzire i marcatori. Erano gli anni d’oro dei laterali Muñoz e Loustau, delle mezzali Labruna e Moreno e, soprattutto, dell’incontenibile e umorale Pedernera, centravanti per talento e bellezza. Come scrissero i cronisti, quella non era una semplice squadra. Per i ritmi che mostrava, gli automatismi e le perfette sincronie tra i reparti, assomigliava piuttosto ad una macchina. Ma, come accade spesso, per far girare i pistoni serve benzina, servono polmoni e ossigeno, e con essi, una straordinaria visione di gioco, oltre a tanta forza, audacia, cervello e temerarietà. Per far girare al giusto regime di giri a quella “Maquina” serviva un calciatore come Néstor Rossi.

Un leader naturale

Néstor era il tipico mediano di grandi leve e potenza. “Pipo” era un leader naturale, in campo e fuori. Era abilissimo nel comprendere le trame del gioco avversario. Vedendolo muoversi sul terreno di gioco sembrava che intuisse con grande precisione i punti deboli dello schieramento avversario, sembrava indovinare per tempo il preciso fazzoletto d’erba dove la diga avrebbe iniziato a cedere. Era Néstor che dirigeva le danze, dettando i ritmi davanti alla difesa, innescando con lanci precisi Muñoz e Loustau, riservando loro i palloni migliori sui lunghi corridoi laterali. De “La Maquina” Rossi era il vero regista, l’autorevole perno della squadra, il punto di equilibrio.

Un compito gravoso e difficile

Fu Carlos Peucelle a intuirne le grandi potenzialità vedendolo giocare con le giovanili del Platense. Fu lui a convocarlo al Monumental in un umido lunedì di pioggia per spiegargli dove sarebbe andato a parare il suo futuro. Fu così che Rossi esordì con la maglia del River a soli vent’anni con un compito gravoso e difficile: mettere in riga quella galleria di fuoriclasse, tenerli assieme e farli girare come fossero un rullo compressore. Nonostante fosse il più giovane di quella consumata combriccola di artisti ed eroi del pallone, Néstor si conquistò sul campo il loro rispetto, divenendo, con il giovane Di Stefano, la migliore promessa dei “Milionarios”. Peucelle non dovette mai spingersi oltre, perché, come aveva previsto, furono proprio i compagni ad affidare a quel giovane prodigio il comando delle operazioni. Rossi si dimostrò sempre all’altezza del compito. Furono quattro anni splendidi, di soddisfazioni e vittorie. Poi, un po’ per mettersi alla prova, un po’ per la smania di andare a vedere com’era combinato il mondo lontano dal Rio de La Plata, se ne andò sulle Ande, in terra di Colombia, a stregare i Milionarios di Bogotà dove divenne per tutti “El Dorado”, vincendo a raffica titoli nazionali e trofei continentali. Rossi rapì così il cuore dell’America Latina.

“El Pipo”

Néstor però non seppe resistere al richiamo e tornò a servire palloni fatati dalle parti del Plate, giusto per chiudere la carriera. Tornò a fare il difensore centrale sino al 1958 conquistando ancora tanta gloria in buona compagnia di Angel Labruna e Omar Sivori. Poi, dopo aver appeso al chiodo la maglia numero cinque, si mise anche a fare l’allenatore sedendosi su moltissime  panchine in giro per il continente. Finì anche per vincere un titolo nazionale nel 1966 alla guida degli acerrimi rivali del Boca, la squadra contro cui, solo cinque anni prima, aveva chiuso la carriera professionista siglando un gran gol alla Bombonera. La sua gente faticò a perdonare quell’affronto. Ma i tempi erano cambiati e così anche il vento. Néstor si congedò da questo mondo nel 2007 ma il suo nome, al pari dei compagni di quel mitico River, campeggia negli annali del football. Per tutti, dalle parti del Monumental, rimarrà affettuosamente “El Pipo”, il motore e il cervello dell’immortale “Maquina” che ha fatto piangere e sognare il Rio de La Plata.