Once in a lifetime: Chet Baker

Il 13 maggio 1988 muore ad Amsterdam Chesney Henry Baker Jr., di professione musicista. Chet non era bravo a trattenersi. Prendeva l’esistenza allo stesso modo della sua musica, con distacco e in punta di piedi, come se appartenesse a qualcun altro. A lui pareva solo una questione di passione. Perché la vita la si doveva prendere così, con umorale solitudine, in compagnia di una sigaretta e una bottiglia di bourbon, giusto per tenere a distanza le prime ombre della notte.

Un cono oscuro

La sua inesorabile caduta non era stata solo una questione di gravità. Chet, in quel cono oscuro, si era lasciato scivolare lentamente, con dolcezza e convinzione. Ci si era infilato senza pagare paura o vertigine. Si era buttato via come molti altri amici di quella generazione perduta che aveva ingaggiato una singolare battaglia con il tempo. Aveva gettato al vento quello speciale talento di parlare alle stelle dalla stretta campana di una tromba, sussurrando al microfono come al cuore per inseguire le trame tenui di fraseggi e contrappunti. A lui quella pareva la strada più semplice, l’unica che conosceva. Chet sapeva di possedere una preziosa specialità e aveva imparato a usare la musica come fosse una guida. Ma, a dispetto di molti altri colleghi, se ne serviva anche per perdersi, per scappare e lasciare che le cose infine precipitassero. In questo era diventato bravo. Quella caduta la perfezionava sempre e ovunque, su di un palco come in mezzo alla strada, nel letto di una stanza d’albergo come al bancone di un bar. Gli sarebbero servite delle buone ali, pensava, per farlo ancora meglio, per alzarsi in volo e gettarsi in picchiata, per seminare i fantasmi, i tormenti, le passioni e tutte le debolezze. Grandi e lunghe ali, buone per staccare l’ombra dagli affanni di un’infanzia complicata, per dimenticare le incomprensioni di affetti lontani, la brutale esperienza del carcere e l’illusorio bagliore delle droghe. Perché la musica gli aveva regalato una chance ma lui l’aveva bruciata tutta come fosse un fiammifero.

Corde intime e profonde

Chet era un’anima di questa terra, saldamente ancorata a fragilità e insicurezze. Era pericoloso e grande come il jazz, come i fumi di quella “Funny Valentine” che amava inseguire. Era bello e dannato, egoista e generoso, dolce e violento, bugiardo e sincero. Aveva duettato con tutti i più grandi, da Stan Getz a Charlie Parker passando da Gerry Mulligan. Con la sua tromba aveva scosso corde intime e profonde. Aveva scrutato il buio del pozzo più profondo e alla fine si era convinto che quello non era poi un posto così brutto dove andare a rifugiarsi. Perché, alla fine, lo accarezzava allo stesso identico modo della sua musica.

Nessuno come lui

Nessuno suonava come lui, nessuno accarezzava la tromba come sapeva fare lui. Chet non conosceva scale, non sapeva cosa farsene di accenti e virtuosismi. Lui suonava a modo suo, quello che aveva imparato da solo a undici anni grazie a una tromba regalatagli dal padre. Trattava il suo strumento con grande confidenza senza porsi limiti, inseguendo il profilo di idee e pensieri. Chet intuiva un tracciato e stazionava nei paraggi. Rimaneva a lungo sulle note in modo delicato, intimo e accorato. Le blandiva cercando vibrazioni basse e continue, come fossero un lamento o un dolce richiamo. Viveva pericolosamente, in fuga da bollette,  dai creditori e dai guai che di tanto in tanto lo raggiungevano. Per regolare le pendenze con qualche spacciatore perse molti soldi, la sua dignità e buona parte dei denti. Il buon cuore di Gillespie lo strappò a una deriva grigia e anonima, triste e dura. Dizzy lo aveva ripescato da una pompa di benzina dove era finito a riempire serbatoi. Lo aveva rimesso in sesto regalandogli una speranza e una nuova dentiera. Chet aveva così ripreso a suonare. Purtroppo, però, niente sarebbe più stato come prima.

Di tanta inusitata bellezza

La sua discesa sarebbe infatti continuata in silenzio, tra le rughe di una faccia d’angelo precocemente invecchiata. Chet si sarebbe così trascinato sino al gran finale. Singolarmente, sarebbe stata una caduta a chiudere i conti in maniera definitiva. Sarebbe accaduto alle tre di mattina, di ritorno da una serata di pensieri lunghi e di emozioni. Avrebbe detto addio a questo mondo precipitando dal davanzale di una finestra del Prins Hendrik Hotel di Amsterdam. Chissà. Forse aveva deciso che era venuto il suo momento o forse era solo troppo sbronzo per mettersi a dormire. Chet si lasciò andare per l’ultima volta abbracciando la sua tromba, che di tanta inusitata bellezza era tutto ciò che gli era infine rimasto. “Baker aveva negli occhi un non-so-che da cowboy, uno sguardo sempre un po’ fuori fuoco, portava la tromba alle labbra come una bottiglia di brandy, non suonava ma la sorseggiava. Per le sue qualità artistiche, Chet era destinato a correre per conto suo. Ma le sue qualità umane non erano altrettanto forti, non abbastanza da tenerlo lontano dalle tentazioni.”