Once in a lifetime: Henri Cartier-Bresson

Il 3 agosto 2004 muore a Cereste, sulle Alpi Provenzali, Henri Cartier-Bresson, di professione fotografo. Henri non governava solo immagini, lenti, ottiche e pellicole. Henri cercava di ingannare il tempo rubando istanti che avrebbe affidato all’eternità raccontando l’esistenza seguendo intuizione e immaginazione. Aveva un innato talento: sapeva stregare la luce e le ombre, la superficie e la profondità. In questo non aveva pari. Henri era un fine alchimista, un mago delle emozioni. Tutti questi suoi straordinari poteri però non erano nulla senza una macchina, senza la sua Leica e le sue perfette meccaniche. Queste cose sarebbero diventate del tutto inseparabili.

Lungo i margini di un precario equilibrio

Henri era la sua macchina fotografica. La Leica rimase, infatti, per decenni una sorta di speciale estensione dei suoi occhi, lo strumento con cui leggeva la realtà. Come tutti i grandi fotografi, anche Henri non si limitò a fermare il tempo e i suoi infiniti istanti, ma andò ben oltre, riuscendo anche a catturare l’ambito più immateriale delle relazioni tra oggetti e persone. Henri usava la macchina fotografica come una macchina da scrivere, senza ricorrere a parole, grammatiche o convenzioni. Con essa inventò una professione sin lì confusa con altre discipline. Era un mestiere nuovo ed eccitante. Per fare il fotoreporter serviva ben altro: erano necessari coraggio, riflessi e tempismo. D’altro canto chi si trova catapultato in scenari a rischio, nel bel mezzo di un teatro di guerra come nell’affollato flusso di una piazza, non può concedersi il lusso di sprecare nemmeno un istante per regolare la focale o cercare la luce migliore. Chi si trova a camminare su quel filo in precario equilibrio tra le ombre può solo seguire il suo istinto. E proprio questa diventò la sua più grande specialità.

L’arte, i viaggi e l’avventura

Cartier-Bresson veniva da una famiglia di imprenditori, gente avvezza a misurarsi con l’urgenza del quotidiano. Suo padre era un attivo industriale tessile. Gli aveva assicurato un’infanzia agiata e felice trascorsa tra la grande casa di campagna e gli Champs-Élysées. Ciò nonostante, il piccolo Henri mostrò da subito un’irrequieta creatività faticando a celare la propria insofferenza nei confronti dei doveri sociali e dell’etichetta. L’orizzonte di Henri apparve così diverso da quello immaginato dalla sua famiglia. Alla manovia meccanica Henri preferì infatti l’arte, i viaggi e l’avventura. Il mondo era troppo interessante per non provare a girarlo, troppo fantastico per non provare a ritrarlo. Così il giovane Cartier-Bresson coltivò una spiccata sensibilità per tutto l’ampio campo dell’espressione artistica nutrendosi di tutte le tensioni che animavano le avanguardie dei primi anni del secolo nuovo. La frequentazione di importanti atelier di maestri come Lhote e Blanche, la pittura, il disegno, il fauvismo, il cubismo e la prima stagione del surrealismo lo educarono a una visione libera da schemi, costruita per assonanze e associazioni, per suggestioni e immagini. Blanche lo introdusse all’arte del ritratto, lo guidò tra le infinite sfumature della natura umana ed i riflessi delle emozioni.

Il mondo visto dall’obiettivo della sua Leica

Il cinema fu la prima passione. Prese a lavorare negli stabilimenti di posa facendo da assistente al maestro Renoir. Tentò anche la carriera di regista ma in molti lo dissuasero. Poi improvvisamente il suo tempo mutò. Un amico lo invita a una mostra e la sua vita cambia radicalmente direzione. Il merito fu di un epocale scatto di Martin Munkacsi, una foto che ritraeva alcuni ragazzi di spalle mentre correvano sulla spiaggia verso le onde del mare. Quello scatto, per Henri, possedeva una forza primordiale, un potere che nessun altro canale espressivo avrebbe mai potuto eguagliare. Quella fotografia bucava la realtà e ne restituiva tutta la sua cruda essenza. Da quel momento Henri guarderà il mondo dall’obiettivo della sua Leica. Quello che vedrà e proverà a ritrarre non sarà sempre bello e piacevole. La sua attività lo porterà a muoversi in contesti difficili e sul fronte della Seconda Guerra Mondiale. Henri confluirà nelle file della resistenza, sarà catturato dai nazisti e riuscirà ad evadere dal carcere. Le foto di quel periodo lo renderanno famoso sino ad accreditarlo in tutto il mondo. Fotograferà per Harper’s Bazaar e Vogue, esporrà al Moma di New York, e fonderà, in compagnia di Capa, Rodger, Seymour e Vandivert, l’Agenzia Magnum.

Il momento decisivo

L’amore per l’avventura e la fotografia lo porterà in tutto in globo, persino al di là della cortina di ferro. Henri scatterà memorabili fotografie in Russia, in Cina, in Messico, in India, in Giappone, e in Sardegna, dove, tra Orgosolo, Orosei e Cala Gonone, realizzerà uno storico reportage. Tutta quella straordinaria sensibilità gravitava attorno al momento decisivo, all’attimo fatale, quello in cui il dito si abbassa e le meccaniche fanno il loro dovere. Henri sosteneva che per andare a caccia di quel precario istante servono tempo ed esperienza. Possono volerci ore o anche un solo effimero secondo prima di arrivare allo scatto giusto. In questo senso, fotografare significa ascoltare se stessi, sintonizzarsi con il mondo esterno. Per Henri quel magico mestiere lo si poteva imparare anche senza aver mai toccato una camera o una lente, perché una fotografia la si scatta sempre con gli occhi prima che con la macchina. Di quel fragile e cruciale istante Cartier-Bresson divenne un poeta. Scrutò il mondo alla ricerca di un’ispirazione, nell’attesa che la realtà scegliesse infine di lasciarsi trasportare nel futuro.

«In realtà la fotografia di per sé non mi interessa proprio; l’unica cosa che voglio è fissare una frazione di secondo di realtà. Il tempo corre e scorre, e solo la nostra morte riesce ad afferrarlo. La fotografia è una mannaia che coglie, nell’eternità, l’istante che l’ha abbagliata».