Once in a lifetime: Jackson Pollock

L’11 agosto 1956 muore a Long Island, New York, Jackson Pollock, di professione pittore e artista. Jackson era un talento irregolare. Viveva ai margini, rifiutando regole e convenzioni, contestando formule, scuole e canoni. Abitava un mondo diverso da quello dei suoi colleghi: in quell’universo cromatico tutto era possibile, anche rovesciare i fondamenti della pittura e il ritmo consolidato della creazione.

Un’arte avventurosa e temeraria

La sua era un’arte avventurosa e temeraria che non giocava con la citazione e non si lasciava attrarre dalla comodità. Fu forse questo, più che uno stile di via randagio, a trasformarlo in un provocatore per buona parte degli osservatori. Furono, infatti, ben pochi i critici che riconobbero nelle sue opere un epocale cambiamento, l’incipit di un nuovo capitolo. A dire il vero nemmeno Jackson poteva dire di credere in quelle sue singolari composizioni. Eppure, sin dalle prime tele, il mondo parve davvero mutare direzione e nulla sembrò più come prima. L’esperienza visiva dei suoi quadri mutò infatti l’orizzonte di riferimento e, con esso, la percezione collettiva dell’arte e della sua funzione.

Una danza

Pollock non pitturava, pareva danzare piuttosto. I primi critici che lo vedono lavorare in quella maniera poco ortodossa rimangono sconcertati da tanta magia, potenza e energia. Il suo dripping è pura performance fisica, una specie di trance, di ballo antico e tribale che risveglia corde profonde e primitive. Quel nervoso movimento di muscoli e tendini guida mani e pensieri. In quel perimetro Jackson va a caccia di tutti i suoi fantasmi, li cattura e li imprigiona tra i fitti reticoli creati dalle scie di colore. La sua è una pittura politica e di rottura, un’arte che urla un nuovo linguaggio e che anticipa buona parte dei temi cari alla contemporaneità. Pollock non ritrae soggetti ma scava in se stesso, nel buio dell’esistenza e nel vuoto delle regole, prendendo le distanze da ogni standard o imposizione. E’ un’autentica rivoluzione dei paradigmi, una grandiosa rappresentazione della crisi di forma e sostanza, rimpiazzate per l’occasione da visioni ed emozioni, intuito e caos. In quei segni e in quelle traiettorie di colore pulsa tutta la triste quotidianità di obblighi e doveri, tutta l’amarezza di speranze disilluse. Il suo impatto sulla scena artistica è, a dir poco, drammatico: per questo Pollock rimane per lungo tempo del tutto incompreso, un visionario vezzoso e ingestibile. Rimarrà così a montare la guardia ad una fragile frontiera tra analisi psicanalitica e imprevedibile istinto. Rimarrà lì ad aspettare in compagnia di bourbon e idee.

Istinto e colore

Quinto figlio di un agricoltore del Wyoming, Jackson era arrivato alla pittura giovanissimo. Dalle scuole d’arte però transitò come una meteoria venendone rapidamente cacciato per i soliti problemi di disciplina. Le prime vere ispirazioni arrivarono dall’esterno, da ambienti distanti dalle accademie. L’incontro con Benton e Siqueiros si rivela fondamentale. Grazie a loro, Jackson comprende l’importanza di un approccio popolare legato all’istinto e al colore. Con loro Jackson cresce e impara a fidarsi solo di se stesso, comincia a capire la necessità di una ricerca introspettiva che si spinga oltre i riferimenti stilistici e le attitudini, il primitivismo dei nativi americani e il surrealismo. Pollock guarda alla realtà da una singolare prospettiva, distorta, geometrica e tridimensionale. Sembra riflettere su una struttura di base, sull’infinito vorticare dei frattali. Quelle strutture scomposte Jackson le avverte ovunque, anche nell’intreccio di cieli e colline. Non è solo astrattismo o performance: la sua è un’inquieta idea del mondo, un omaggio al caos che governa la complessità.

L’ascesa

Fatica però a trovare estimatori. Non fosse stato per il denaro, il sostegno e l’affetto di Peggy Guggenheim sarebbe finito sulla strada a sbarcare il lunario o a fare il benzinaio. Poi, d’un tratto, la sua attività sembra conoscere gratificazione e consensi. Ancora una volta il merito è di Peggy che spinge la rivista Life a concedere spazio alle sue opere. E’ l’8 agosto 1949. La curiosità e l’interesse suscitati dall’articolo sono travolgenti. Piovono richieste di interviste ed offerte d’acquisto. Da artista incompreso e reietto, grazie a quelle poche pagine Jackson si trasforma in un autorevole profeta della modernità. Ma quello che poteva finalmente essere il coronamento di una lunga gavetta, viene percepito solo come un palese invito a cambiare strada. Le opere successive saranno infatti buie e oscure, ostiche e descrittive, inclini a districarsi tra le ombre e del tutto restie a concedersi. Seguendo quelle traiettorie Pollock continuerà ad esplorare con sempre maggior profondità la materia umana, sino a spingersi là dove nessuno era stato prima.

L’epilogo

Quella ricerca era però destinata ad interrompersi prematuramente. Rientrando da una delle tante scorribande notturne, in preda ai fumi dell’alcol, perde il controllo della sua auto e finisce fuori strada a poco più di un miglio da casa. Jackson muore sul colpo, se ne va per sempre a soli quarantaquattro anni per ricongiungersi con il baratro che stava da tempo blandendo. Il suo contributo più decisivo rimarrà quello di aver spezzato il fragile tabù della mediazione simbolica, distaccando definitivamente l’uomo dal recinto della speculazione intellettuale e razionale per restituirlo al pozzo profondo delle sue più intime pulsioni. «Quando sono “dentro” i miei quadri, non sono pienamente consapevole di quello che sto facendo. Solo dopo un momento di “presa di coscienza” mi rendo conto di quello che ho realizzato. Non ho paura di fare cambiamenti, di rovinare l’immagine e così via, perché il dipinto vive di vita propria. Io cerco di farla uscire. È solo quando mi capita di perdere il contatto con il dipinto che il risultato è confuso e scadente. Altrimenti c’è una pura armonia, un semplice scambio di dare ed avere e il quadro riesce bene.»