Once in a lifetime: Clay Regazzoni

Il 5 settembre 1939 nasce a Lugano Gian Claudio Regazzoni, di professione – come scrisse Enzo Ferrari – “viveur, danseur, calciatore, tennista e, a tempo perso, pilota”. Al pari di Hunt, Stewart e Fittipaldi, Clay è stato l’icona del pilota di Formula Uno negli spigolosi anni Settanta: sprezzante del pericolo in gara, aggressivo al volante, guascone e irresistibile nei party mondani a cui raramente mancava. Perché Clay non era soltanto un pilota ma un uomo di spirito che prendeva la vita sempre per il suo lato migliore, tagliando curve, cordoli e tutte le situazioni critiche regalategli dal destino, dalle strettoie dei giorni migliori ai tunnel di quelli più cupi, dalle polemiche roventi agli incidenti più drammatici. Clay ha vissuto fino in fondo alla giornata con passione e un sagace, divertito e curioso cinismo. Proprio questo, ancora più di coraggio e azzardo, gli assicurò un naturale e magico ancoraggio al cospetto di molti improvvisi rovesci.

La Tecno e il titolo europeo di Formula 2.

Alle corse Clay ci arrivò in età non più giovane grazie ad alcune cronoscalate disputate a bordo di piccole auto di serie. Quelle prime gare furono una rivelazione. Clay, infatti, scoprì di saper portare al limite quei poveri mezzi con maestria e abilità. Sembrava pilotare d’istinto e d’impeto mettendo in mostra una straordinaria sensibilità sui pendii montani. In breve divenne così un protagonista assoluto dei tornanti d’alta quota, dove il piede contava spesso più del resto, Clay conquista trofei a ripetizione ma quando scende ad affrontare gli altri piloti tra i rettilinei e le varianti delle piste la musica cambia. Per correre sull’asfalto dei circuiti serve, infatti, buon mestiere. Decide così di frequentare i corsi di pilotaggio di Russell, dove sbaraglia la concorrenza conquistando un volante per correre il campionato di Formula 3. Dal 1967 il suo destino si lega alla Tecno, l’agguerrita scuderia dei fratelli Pederzani, con cui si mette in mostra ottenendo i primi successi con condotte di gara esuberanti ed al limite di tutto, ovviamente anche della meccanica. La fortuna però l’assiste un po’ ovunque, soprattutto a Montecarlo quando la sua monoposto finisce lunga e si infila tra le affilate lame del guard-rail rischiando addirittura la decapitazione. L’anno d’oro è il 1970. Clay si aggiudica il Campionato Europeo di Formula 2 e diventa un ospite fisso delle gare di durata per vetture Sport Prototipi. Partecipa alla “24 Ore di Le Mans” al volante di una Ferrari 512 S in coppia con Arturio Merzario sfiorando un clamoroso successo. Ormai è maturo per il grande passo e dalle parti di Maranello se ne accorgono subito. Solo qualche settimana più tardi approda alla Formula Uno per uno dei più straordinari esordi di sempre.

I primi anni con il “Cavallino”.

Lo sceglie il Drake in persona per via di quel carattere vigoroso e quello stile di guida sanguigno. Con la Ferrari va a punti sin dalla  gara d’esordio del Gran Premio d’Olanda, quando taglia il traguardo in quarta posizione, e si aggiudica poi il Gran Premio d’Italia a Monza nel tragico fine settimana in cui perde la vita Jochen Rindt. Nonostante il dolore e lo shock, i cronisti non stanno nella pelle. I titoli sono quelli delle grandi occasioni: per tutti a Monza è nata una stella. Gli entusiasmi, però, non durano a lungo. Clay deve fare i conti con gli anni più difficili della scuderia modenese e, dopo due frustranti stagioni, passa alla B.R.M. sperando di raggiungere il podio. Sarà lì che farà la conoscenza del velocissimo talento austriaco Niki Lauda, alla cui parabola lo legherà una sorte capricciosa e mai troppo generosa.

Il ritorno a Maranello in grande stile

Le sue prestazione sono talmente convincenti che il Drake ci ripensa e lo richiama alla sua corte. Sarà Clay a raccomandare l’austriaco sponsorizzandone il talento e gestendo anche i primi attriti con l’ambiente. Purtroppo gli toccherà anche farsi da parte coprendogli le spalle nella rincorsa al titolo. A bordo dei bolidi di Maranello trascorrerà gli anni più belli. Avrà infatti il privilegio di pilotare alcuni dei più riusciti gioielli della scuderia del “Cavallino”, dalla 312 B3 alla T2, e rimarrà costantemente in sintonia con il Drake, Forghieri e il resto della squadra, almeno sino al primo titolo iridato di Lauda. Da lì in avanti le cose cominceranno fatalmente a incespicare. Una questione di attese frustrate o forse di promesse bruciate, azzarderanno gli storici. Il rammarico di aver “bucato” l’appuntamento con la storia nella stagione 1974 comincerà lentamente ad allungare le ombre sui rapporti con la scuderia diventando un ostacolo sempre più ingombrante. Perché alla gloria, in quell’anno, Clay ci era andato davvero vicino fermandosi a pochissimi punti da Fittipaldi. Si era infatti presentato alla partenza dell’ultima gara, il Gran Premio degli Stati Uniti, sulle colline spelacchiate di Watkins Glen, a due soli punti dal rivale ma aveva mestamente finito per remare nelle retrovie a causa di problemi tecnici e di assetto. Dal calare di quella amara bandiera a scacchi un sordo rancore prenderà silenziosamente a scavare tra i pensieri. Rimarrà alla corte del Drake ancora per due anni. Poi, alla metà del 1976, annuncerà a Ferrari l’intenzione di andarsene. Nel disastro del Fuji, Clay infatti saluterà tutti e se ne andrà sbattendo la porta.

Dalla Ensign al terribile crash di Long Beach.

Dopo la Ferrari ci sarà spazio anche per alterne stagioni con l’Ensign e la Shadow. Nonostante un quotidiano stillicidio di noie tecniche, Clay continuerà ad essere uno dei driver più veloci e affidabili del circus, attento non solo agli aspetti competitivi ma anche a quelli legati alla sicurezza dei piloti. Quando nel 1979 lo ingaggia Frank Williams la sorte pare rimetterlo nuovamente in carreggiata. La FW7 è un progetto riuscito e avveniristico e Clay torna più volte sul podio sino a regalare alla scuderia inglese la prima storica affermazione a Silverstone. Ma i rapporti con l’altro pilota del team, l’australiano Alan Jones, non sono idilliaci e l’anno successivo Williams finisce per preferirgli il più malleabile Reutemann. Clay torna così a cercare un buon volante. Glielo offre nuovamente la Ensign con cui si rassegna a navigare nelle ultime posizioni tra problemi di ogni genere e gravi guasti. Sarà uno di questi, un’improvvisa avaria all’impianto frenante durante il Gran Premio di Long Beach, nella primavera del 1980, a decretare drammaticamente la fine della sua carriera.

Un disastroso crash

Clay rimane senza freni ad oltre 270 chilometri all’ora ed esce di pista. Sfortunatamente non trova né gomme né balle di paglia ad attutire la tremenda botta, ma bensì un’altra vettura improvvidamente lasciata a bordo pista dai commissari di gara. L’urto con la Brabham di Zunino è devastante. Clay si salva per miracolo ma subisce gravi traumi alla colonna vertebrale e perde l’uso degli arti inferiori. Ma Regazzoni si riprende rimanendo comunque nel mondo dei motori. Continua a correre in altre specialità con la sensibilità di sempre, sia in pista che fuori, fondando con Luca Pancalli la “Federazione Italiana Sportiva Automobilismo Patenti Speciali” e divenendo il testimonial d’eccezione di molte campagne di sensibilizzazione e di promozione sul tema della disabilità. La vita che aveva a lungo accarezzato dalle razze dei volanti delle vetture considerò, quindi, di chiudere definitivamente i conti nel dicembre del 2006. La morte lo raggiunse per un malore mentre era alla guida della sua auto all’età di 67 anni. In carriera, Regazzoni realizzò molte grandi imprese, superando prove complesse e difficili senza venir mai meno a impegno, correttezza e rispetto. Rimase sempre un pilota e un uomo di carattere, caparbio, coraggioso e viscerale, capace di grandi slanci e profondi sentimenti. Anche per questo è ancora stabilmente nel cuore di molti appassionati.