Once in a lifetime: Antonio Ascari

Il 15 settembre 1888 nasce a Moratica, frazione di Bonferraro, in provincia di Verona, Antonio Ascari, pilota ardimentoso e futuro padre di Alberto. Antonio è stato uno dei protagonisti di un automobilismo eroico che bruciava sogni, strade, prati e sterrati tra nuvole di sassi e fitte scie di polvere. Il suo era un universo fisico, di fatica e talento, dove il pericolo era parte integrante del prezzo. Perché non era tanto la febbre del futuro e la modernità a sedurre le folle quanto piuttosto il guizzo inebriante di un azzardo. Era quello il pane che accomunava chi maneggiava acrobaticamente i bolidi e chi andava ad accarezzarne i vortici d’aria ai lati della carreggiata. Perché andare a vedere le corse automobilistiche era ben più pericoloso che mordere l’asfalto al volante di un pesante bolide.

Un figlio della “bassa”.

Figlio, al pari del Nuvolari da Castel d’Ario, delle smisurate distese di campi e grano della “bassa” padana e della “dolce pianura umida e verde”, Antonio maturò la passione per la velocità saldando forcelle e telai di bicicletta e riparando i motori a scoppio dei trattori. Fu il fratello a spronarlo ad assecondare quella passione. Così, il giovane Antonio inseguì il suo sogno trasferendosi a Milano nell’umido antro delle Officine Automobilistiche De Vecchi & C., dove prese a dare confidenza a molle, chiavi inglesi e pistoni, studiando con grande cura ogni particolare meccanico delle formidabili Alfa Romeo che cominciavano a dominare le prime competizioni. Il destino però ha altri piani e lo spedisce oltre Atlantico, in Brasile, ad impiantare un’attività commerciale. Quando rientra in Italia, De Vecchi gli affida il delicato incarico di capo officina. Antonio collauda di persona ogni auto che esce dal capannone di Via Peschiera. Il lavoro di meccanico gli piace e l’appassiona, ma quando si mette al volante tutto sembra prendere una piega diversa. Sono anni di sogni e promesse, di brividi e sorprese. Sono gli anni del primo dopoguerra, dei Gran Premi Internazionali e dei circuiti cittadini. Sono anni di futuro.

Uno stile sanguigno e garibaldino.

Singolarmente i suoi primi successi non dipesero, però, dalla sua grande perizia tecnica. Per una singolare legge del contrapasso, in realtà, lo stile esuberante di Antonio non risparmiava motori o meccaniche. Forse anche per questo l’idea delle competizioni rimase a lungo solo un pensiero timido, aereo e leggero. Poi, un bel giorno, grazie anche a una curiosa concatenazione di coincidenze, tutte le sue titubanze svanirono lasciando spazio ad un’irrefrenabile pulsione. Antonio iscrive la sua Fiat tipo Gran Prix S 57/14 B di colore rosso alla “Parma-Poggio di Berceto”. E’ il 5 ottobre 1919. Antonio dipinge sulla carena della monoposto il numero quattordici e prende il via. Non modifica l’assetto nè tantomeno prova il tracciato. Infila gli occhialoni e mette in moto. Nonostante i pressanti inviti degli amici, decide pure di ignorare la pioggia non sostituendo le coperture con l’ultimo ritrovato della tecnica, le miracolose “antiderapants” dai tasselli antiscivolo. Malgrado qualche incertezza e un ampio campionario d’ingenuità, Ascari vince la gara con un clamoroso distacco. Il suo singolare stile ricorda ai cronisti quello di Lancia, noto per prendere in pieno la vita e le curve senza toccare i freni o il cambio. I suoi nervi saldi lo spingono anche ad infrangere il record di velocità. Dopo la gara, con la faccia ancora infangata, si siede a tavola all’albergo “Poggio” con i giornalisti a divorare un piatto fumante di tagliatelle lasciando andare pensieri e parole. E’ così che diventa un personaggio: i tecnici applaudono, i cronisti scrivono, la gente sogna e le ruote del destino cominciano a girare. La sua carriera parte in ritardo ma brucia le tappe. Nonostante l’epica premessa, non saranno però tutte rose e fiori.

L’era dell’Alfa Romeo.

Le gare seguenti, infatti, non vanno per il verso giusto. Antonio si rivela troppo precipitoso ed esuberante e finisce per commettere qualche errore di troppo. Il passaggio all’Alfa Romeo coincide con l’apertura di una nuova avventura commerciale. Antonio alterna a quello di pilota anche il mestiere di imprenditore. Non sapendo come comportarsi, nei documenti di gara al suo cognome gli organizzatori aggiungono prudenzialmente il termine “signore”. Antonio sfiora il successo in molte competizioni e alla Targa Florio. Al Gran Premio di Monza del 1923 parte favorito al volante delle nuove e potenti GPR da 95 cv, ma la tragica morte dell’amico Sivocci chiude i giochi. L’Alfa si ritira e Ascari deve attendere. Antonio, però, è sulla strada giusta. Il 1924 sembra l’anno della svolta. Alla guida della nuova 2 litri comincia finalmente a vincere le gare che contano, a partire dal Gran Premio d’Italia a Monza che si aggiudica stabilendo il nuovo giro più veloce bloccando il cronometro a 3 minuti e 34 secondi. Quel record resisterà sino al 1931. Finalmente, assieme alle ruote della sua Alfa si mette a girare anche la fortuna. Ascari passa di successo in successo, scalando classifiche e guadagnando una crescente popolarità. I duelli ingaggiati con le Bugatti e le Delage infiammano le cronache dei quotidiani. Nel 1925, domina con l’amico-nemico Campari il Gran Premio d’Europa a Spa, nelle Ardenne. Le Alfa Romeo attaccano sin dal primo giro sulle veloci compressioni del tracciato e sbaragliano l’agguerrita concorrenza dei francesi, che danno però appuntamento al Gran Premio successivo, quello di casa. Nelle intenzioni dei costruttori transalpini, quello di Monthlery sarà la resa dei conti.

Il tragico epilogo di Monthlery.

A Monthlery, il 26 luglio 1925, la sorte, però, lo attende al varco. Secondo le consegne dell’ingegnere Romeo, Campari dovrà prendere la testa imprimendo un ritmo sostenuto alla gara. Ma il compagno di scuderia ha qualche problema in partenza e Antonio scatta così da solo al comando, inseguito dagli avversari, dalle Bugatti e dalle Sunbeam. Fa una prima pausa ai box per rifornire. I meccanici lo rassicurano sull’enorme distacco già acquisito e gli chiedono di amministrare vettura e vantaggio. Ma Ascari torna in pista e spinge ancora di più sull’acceleratore, perché, quel giorno, gli avversari ha deciso di mangiarseli, dal primo all’ultimo. Alla tornata numero 23, il disastro. Per la solita foga, Antonio imposta male una curva e finisce per toccare con la ruota anteriore una palizzata in legno che si infila sotto l’assale. L’Alfa Romeo P2 sbanda violentemente ed esce di pista ad oltre duecento chilometri all’ora. Ascari viene sbalzato fuori dall’abitacolo e muore sul colpo nell’impatto con il terrapieno. Il corpo esanime del pilota italiano viene lasciato a giacere sull’erba, ai bordi del tracciato, senza alcuna assistenza, per lunghi interminabili minuti. Il medico arriverà, infatti, solo mezz’ora più tardi e si limiterà a constatarne il decesso. Scompare così uno dei più grandi talenti motoristici di sempre. Ascari se ne va a soli trentasei anni, ma il suo testimone verrà idealmente raccolto dal figlio Alberto che, molti anni più tardi, diventerà anch’egli un’asso del volante finendo per fare i conti con un analogo destino in un’altro tragico giorno numero 26. Scrisse di lui Enzo Ferrari: “Noi lo chiamavamo affettuosamente “il maestro”. Era un carattere fortissimo, era un uomo dall’attività eccezionale e di vero coraggio. Come pilota Antonio Ascari era estremamente audace e di temperamento improvvisatore; un garibaldino, come si dice in gergo di quei corridori che antepongono il coraggio e la carica emotiva allo studio scrupoloso del percorso, che le curve le indovinano ogni volta, cercando giro per giro di avvicinarsi il più possibile ai limiti di aderenza.”