Once in a lifetime: Italo Calvino

Il 19 settembre 1985 muore a Siena Italo Calvino, di professione scrittore. Calvino, pur incrociando tutte le più importanti tendenze letterarie del Novecento, ha tracciato una rotta privata e personale che si è mantenuta a debita distanza da quelle frequentate da amici e colleghi. Nonostante molti avvisi contrari, Italo ha così ostinatamente tenuto la prua sulle stesse traiettorie scelte in anni incerti consumati al fuoco della passione per la politica, le commedie, i racconti clandestini e la vita partigiana.

Cercare il vento

Navigare nel mondo delle lettere è sempre molto complesso. Calvino lo comprese subito, sin dalle primissime pagine. Forse anche per questo è andato a cercare il vento dell’ispirazione dove altri non hanno osato, spingendosi fuori dai limiti fissati dalle carte. Lì, in mare aperto, ha atteso le folate più impetuose sciogliendo le vele in sicurezza e semplicità. Questo suo tratto aereo, leggero e apparentemente distante dal suo tempo, questo suo “mezzofiato” da scrittore breve di fiabe e racconti, passato d’un colpo dalla giovinezza a una matura vecchiaia senza diventare adulto, gli ha imposto ogni volta di cambiare i registri e ne ha fatto uno dei più brillanti e ispirati capitoli della letteratura del secolo scorso. Così, la sua straordinaria poetica è cresciuta nel perimetro di una profonda e severa ricerca personale, al cospetto dell’alternarsi di stagioni diverse, esplorando terre ignote sino a trovare nello smarrimento della contemporaneità i percorsi labirintici del vivere quotidiano.

Uno scrittore letterato

Calvino era uno scrittore letterato, un fine editor non solo delle opere del catalogo di Giulio Einaudi, ma pure di se stesso. Italo è stato infatti il primo e più acceso censore di tutto il proprio esuberante talento. Nelle sue opere imparò così a celare gli eccessi di zelo, che molto spesso ne governarono le scelte giovanili, ed a contenere le tentazioni virtuosistiche dell’eta di mezzo imponendosi repentini cambi di direzione e improvvise svolte. Calvino era le sue storie. Le cercava e le studiava, le lasciava crescere tentando di catturarne l’essenza, la loro parte più intima e nascosta, quel meccanismo segreto che le rende leggere, universali ed eterne. Guardava alla realtà pensando alle fiabe. Giocava con loro sino a scomporle ricostruendole, parola per parola, con la stessa cura di un architetto, dosando le forze della statica e della gravità, cercando di tenere assieme solidità e bellezza. La sua arte minuta sfidava così la complessità con armi semplici ed efficaci. Come lo scultore con la nuda pietra, così Calvino ripassava i propri scritti sottraendone il superfluo, limandone il perimetro, ripassandone spigoli e spessori sino a lasciare in evidenza solo ciò che serviva. Questa sua incredibile capacità, unitamente ai tratti più schivi e poliedrici del suo carattere, è stata talvolta interpretata come un segnale di fredda distanza geometrica. Per questo la critica e i salotti letterari vi hanno, sin da subito, visto qualcosa da proteggere e salvaguardare, contribuendo a un’accademica idealizzazione della sua figura. Per uno spietato paradosso, nel dorato isolamento della teca di cristallo entro cui è stata racchiusa da studiosi e ricercatori, l’opera di Calvino, celebrata da troppe iperboli e aggettivi, è fatalmente rimasta ai margini dei principali percorsi critici faticando ad incontrare le generazioni più giovani. E’ così accaduto che la sua opera sia stata valorizzata più all’estero che in patria, in particolare in Inghilterra e negli Stati Uniti, suo paese prediletto che attraversò più volte ed a cui dedicò un storico ventaglio di appassionate riflessioni.

Diverso da tutti

Tra innumerevoli e brillanti qualità, ce n’è una che mi piace ricordare perché mi sembra che restituisca fedelmente la grandezza della sua attitudine e quello speciale modo di concepire l’avventura della vita. Perché Calvino rifuggiva le luci del palcoscenico. Scriveva, ma non pensava certamente di essere unico e speciale. Calvino era diverso da tutti. Italo scoraggiava gli amici, temeva gli incontri letterari, non si lasciava attrarre dagli aspetti mondani, risultava addirittura goffo e impacciato quando veniva incalzato dalla vacua conversazione da salotto, rimanendo fieramente distante da ogni smania di protagonismo. Calvino abitava altrove. Respirava nelle pagine dei suoi racconti e delle sue storie, ne misurava i paragrafi con grande senso di umiltà, concretezza e spirito di servizio. Perché Calvino viveva nelle sue trame traducendo la realtà in immaginifiche visioni che erano sempre destinate a fare compagnia ai lettori, come un fuoco invernale in un camino. Calvino pensava e scriveva le proprie storie come fossero legna da ardere ed affidare alla fiamma, come fossero un piccolo capitolo di un libro più grande, di una narrazione millenaria che non avrebbe mai voluto né potuto controllare.

“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”