Once in a lifetime: Julio Libonatti

Il 9 ottobre 1981 muore a Rosario Julio Libonatti, di professione centravanti avventuroso e avventuriero. Libonatti era un italiano d’Argentina di seconda generazione, nato e cresciuto in terra sudamericana, figlio di speranza, lavoro e fortuna. Al giovane “Juliogol” non mancò mai nessuna delle tre. Fu così infatti che, nel giro di pochi anni, si ritrovò, ancora giovanissimo, alle prese con un’importante carriera di calciatore professionista, sbalzato dal fango dei tornei giovanili con la maglia del Central alla ribalta della Liga Rosarina, al cospetto delle ripide distese di baffi e cappelli che affollavano le gradinate dello stadio di casa. Fu così che, in pochi anni, Julio si ritrovò a guidare il leggendario attacco dei rossoneri del Newell’s Old Boys.

Un funambolico goleador

Settantotto reti in centoquarantuno gare fecero di Julio l’incontrastato idolo di Parque Independencia. Fu grazie a questi numeri e a quello stile funambolico che l’ambizioso Torino del conte Enrico Marone Cinzano decise di fare carte false pur di riportarlo nella terra dei suoi genitori. Il Potrillo, il “Puledro” di Rosario, sarà il primo italiano di ritorno, il capostipite di una numerosa e variopinta fetta di stravagante umanità alle prese con la magia della doppia cittadinanza e con l’arte del pallone, una fitta schiera di acrobati innamorati dell’avventura, passionali e ribelli, a caccia di fortuna ed emozioni. Furono anni effervescenti per tutti, anche e soprattutto per i granata, anni di promesse e avvenire, di idee e progetti. Fu in quegli anni che l’attivo presidente vide il futuro e, con esso, uno stadio capiente e moderno. Di lì a qualche anno sarebbero poi arrivati il Filadelfia e i primi germi di una squadra vincente, veloce e offensiva. Il “matador” si lasciò affascinare da tutto questo e tornò in Italia da protagonista, da oriundo del football e da nuovo italiano. Sarà una splendida fiaba, una storia di riscatto, una vicenda di andate e ritorni.

Il “trio delle meraviglie”

A Marone Cinzano le sue gesta erano state riportate con grande enfasi. Non era, infatti, cosa di tutti i giorni portare al successo la nazionale argentina contro l’Uruguay di Romano e Piendibene nella finale di Copa America del 1921.  Era stato merito di un suo gol se Plaza de Mayo si era ricoperta di bandiere. Lo avevano osannato e portato in trionfo per le strade della capitale. Julio non era più solo l’idolo di Rosario, ma era diventato il campione di una nazione in festa. Adesso voleva conquistare l’Italia. Al Toro “Libo” entra nella leggenda, componendo con Baloncieri, altro italiano d’argentina, e Rossetti un temibile “trio delle meraviglie” che conquisterà il titolo a suon di gol il titolo, riscuotendo ovunque applausi a scena aperta. Quel Torino dispensava un calcio moderno, veloce e manovrato, intenso e agonistico. Libonatti giocava da prima punta. Segnava moltissimo e faceva segnare. Perchè “Libo” non dava riferimenti ai suoi avversari, si spostava su tutto il fronte offensivo e rientrava spesso a centrocampo, infilandosi tra le linee e aprendo, così, enormi e preziosi varchi per i suoi prolifici compagni. Julio era nato per dare calci ad una palla. Il suo football era frutto di un innato equilibrismo. Julio possedeva infatti lo stesso magico e basso baricentro di Messi e Maradona, il loro stesso fisico minuto e rotondo grazie al quale si cimentava in una lunga teoria di inusitate acrobazie. Perché “Libo” con quella palla, oltre a giocare, ballava il tango delle periferie mettendo col sedere a terra intere difese e portieri. Nel solo campionato 1928-29 il trio realizza in trentatre partite qualcosa come 117 gol, pura e assoluta vertigine. Nei nove anni che trascorrerà in granata Libonatti firmerà 157 gol in 266 partite, diventando il secondo marcatore di sempre. La sua semina darà buoni frutti. Servirà come sempre pazienza, cura e tanto sole, ma poi un nuovo presidente, Ferruccio Novo, illuminato industriale con il gusto per il bel gioco, regalerà a Torino una squadra immortale.

La “bella vita”

Libonatti non era solo il suo calcio. Julio era vita e ritmo. Sempre allegro e cordiale, aveva imparato sin da giovanissimo a sprecare bene il talento anche e soprattutto fuori dal campo. Perché “Libo” si dedicava con passione ad un ampio spettro di proficue attività sociali: amava il biliardo, i ristoranti, la bella vita, le belle donne, gli abiti e l’eleganza e non badava mai ai quattrini che guadagnava e spendeva con estrema facilità. A Torino divenne un’icona della vita migliore, quella esagerata, dissoluta e dissipata che riempiva pagine e pagine dei rotocalchi. Ai soldi il “matador” non badò mai, al punto che per tornare in Argentina, dopo tredici splendidi anni d’Italia, toccò agli amici mettere assieme i soldi del biglietto della nave. Il divo Julio rincasò per fuggire alla tristezza e per non avere niente a che spartire con le ombre lunghe del regime fascista e delle infami leggi razziali. Perché Libonatti era un’anima libera e liberale e quei macabri spifferi che avevano preso a soffiare lo avevano mortificato. Gli era passata la voglia di divertirsi. Si era accorto, ormai, che l’Italia non era più quel paese che lo aveva accolto con un sorriso solo un decennio prima. Lì, adesso, non vedeva più niente, né fortuna né riscatto. Così “Libo” raccolse le poche cose e prese al volo una nave, con la stessa convinta leggerezza con cui saltava i difensori avversari, lasciandosi alle spalle un mare di amici e nemici. Tornò dove era nato, a Rosario, a ricominciare una vita tra stadi e balere, cantine e camice di seta, e lì visse fino alla fine dei suoi giorni quella straordinaria favola di ricchezza e povertà che aveva magistralmente raccontato al di quà e al di là del grande Oceano.