Once in a lifetime: Angelo Schiavio

Il 15 ottobre 1905 nasce a Bologna Angelo Schiavio, di professione centravanti. Il suo mestiere era quello di insaccare il pallone nelle reti delle porte, perché Angelo faceva il centravanti disponendo a piacimento delle timide difese avversarie. Era grintoso e tecnico al contempo, ma soprattutto giocava per la squadra della sua città, l’unica che avrebbe mai considerato. Con quella maglia avrebbe toccato il cielo.

“Il Bologna che tremare il mondo fa”

Al calcio, Schiavio, ci arriva ancora ragazzino. A scuola va bene. La famiglia è contenta: lui pensa a trovare una buona occupazione. Gli piace la matematica, da grande vuole fare il ragioniere. Fare di conto è una professione importante e rispettabile. Angelo desidera una vita libera e indipendente e Il lavoro è una buona opportunità. Ma Angiolino è bravo anche con i piedi. Il calcio è da sempre un’attrazione molto forte. E’ talmente bravo a vibrare colpi a una palla che qualcuno gli suggerisce che il football potrebbe magari diventare il suo futuro. Nell’Italia degli anni Venti tirare calci a un pallone era un passatempo ma, in alcuni fortunati casi, cominciava con il diventare anche una professione ben remunerata. Pagati per divertirsi: il massimo, pensa il giovane Schiavio. Angelo è combattuto. All’inizio l’idea del lavoro gli fa accantonare i campi e il fango, ma poi, però, l’amore per quella magica sfera di cuoio prende il sopravvento. Indossa così la casacca rossoblu e si dimostra talmente forte e prolifico da meritare sin da subito la prima squadra. Con lui in prima linea a guidare l’attacco, il Bologna “tremare il mondo fa”. Angelo vince quattro campionati e alza per ben due volte la Coppa Mitropa, che all’epoca è coppa vera e non l’imbarazzante ibrido di qualche decennio più tardi. Schiavio e il Bologna conquistano anche il Torneo Internazionale dell’Expo Universale di Parigi, appositamente istituito per celebrare i fasti dell’esposizione parigina e per ospitare, per la prima volta nella storia, una squadra inglese sul suolo continentale. Il modo con cui Schiavio sta in campo è uguale a quello con cui prende la vita. Di petto e senza paura, con coraggio e umiltà, lottando su ogni pallone al limite anche del fallo, entrando duro in ogni contrasto, senza tirare mai indietro il piede. Angelo carica i difensori come un bufalo nella prateria, si trascina il pallone tra le gambe tenendosi in scia zolle e schizzi di fango e resistendo a ogni sorta di  pressione e spinta. Alla fine, per quanto dolorante, riesce sempre a rimanere in piedi almeno per il tempo necessario a depositare la sfera in fondo al sacco. Angelo rimarrà per molte altre stagioni quel giocatore caparbio e coraggioso, un autentico gladiatore dell’area di rigore. Rimarrà in rossoblu tutte le sue 16 stagioni professionistiche, mettendo insieme 364 presenze e 250 reti. Rimarrà una persona semplice e di gran cuore, fiera e determinata, generoso e di grande spirito.

Figlio di un febbrile entusiasmo

Angiolino possedeva una sorta di febbrile e contagioso entusiasmo, una tenacia che riusciva sempre a galvanizzare i compagni e il pubblico sulle gradinate. In campo mostrava carisma e carattere, anche quando le cose andavano storte, anche quando prendeva botte tremende. Per lui la partita era una sorta di imperativo categorico: non avrebbe mai abbandonato il campo nemmeno se si fosse rotto un piede, cosa purtroppo che puntualmente gli occorse. In quel calcio antico non c’era ancora spazio per le sostituzioni e il giocatore infortunato doveva quindi rimanere in campo, magari confinato sulla fascia a camminare. A differenza di molti colleghi, Schiavio, però, anche in quelle occasioni, non rinunciava a giocare. Magari stringeva i denti, ripassava un intenso rosario di imprecazioni ma rimaneva al suo posto in campo. Il leggendario gol che regalò all’Italia di Vittorio Pozzo i mondiali del 1934 a spese della fortissima Cecoslovacchia nacque proprio in un frangente simile. Un gol epico, non foss’altro per la circostanza che Schiavio, da diversi minuti, era gravemente infortunato a un gamba e faticava anche solo a reggersi in piedi trascinandosi lentamente sulla fascia destra. I compagni lo incitavano, ma lui era davvero preoccupato. Probabilmente quel gonfiore significava frattura. Il piede faceva male in qualunque modo lo appoggiasse. Avrebbe sofferto sino alla morte ma sarebbe rimasto in campo con i suoi compagni, almeno a fare numero.

Quel gol di dolore

Nel pieno di un furioso e teso supplementare, Guaita riceve palla da Meazza e avanza velocemente in verticale sino a spingerla nella stessa fetta di prato dove da diversi minuti incrocia zoppicando l'”Anzlein” in compagnia di una eloquente smorfia. Angiolino potrebbe tranquillamente lasciare andare quella palla al suo destino, potrebbe mandare tutti al diavolo e andarsene a cercare un medico che lenisca il dolore. Nessuno avrebbe mai avuto nulla da ridire. Nessuno gli avrebbe mai rimproverato alcunchè. Qualcuno dei compagni riprende addirittura Guaita, reo di aver spedito la palla nella sua direzione. Sarebbe stato solo un pallone regalato agli avversari. Nessuno in campo, però, immagina cosa sta per accadere. Perchè Schiavio è uno tosto, e per quanto stia soffrendo non ha alcuna intenzione di regalare quel dannato pallone agli avversari. Così, nonostante il dolore che sale acuto a ogni falcata e lo stomaco che gli si serra in uno spasmo, Angiolino scatta legnosamente in avanti assieme a quella lama che gli sta trafiggendo il piede. Compie uno, due, tre piccoli passi, quelli strettamente necessari per arrivare in qualche modo sulla sfera che rimbalza dolcemente sulle zolle, chiude gli occhi e in un ultimo sforzo supremo carica il destro come se, oltre alla palla, dovesse spazzare in rete tutto il dolore di quell’affanno. Con una prodezza balistica di rara bellezza il giocatore bolognese infila uno sbigottito Planicka. Schiavio non fa in tempo a vedere la sfera che si infila in rete. Avverte il boato della folla e crolla a terra perdendo conoscenza. E’ grazie a quella prodezza di ostinata caparbietà che l’Italia sconfigge la Cecoslovacchia e conquista il suo primo alloro mondiale. Nel nome di Schiavio, della sua determinazione e di tutto il suo dolore.