Once in a lifetime: Giorgio Scerbanenco

Il 27 ottobre 1969 muore a Milano Volodymyr-Džordžo Ščerbanenko, al secolo Vladimir Giorgio Scerbanenco, di professione giornalista e scrittore. Scerbanenco è stato ben più di uno scrittore, perché le sue lucide visioni hanno tenuto a battesimo un nuovo e fortunato genere letterario. I suoi avvincenti polizieschi ambientati nell’hinterland dell’Italia degli anni Cinquanta hanno infatti aperto la strada a una numerosa famiglia di scrittori, registi e sceneggiatori. Quei racconti dalle atmosfere noir e metropolitane colsero in netto anticipo le tensioni delle periferie e le ambigue relazioni tra malavita e potere, indagando le zone d’ombra e i lati oscuri dell’animo umano con realismo e crudezza. In quelle pagine Scerbanenco racchiuse le sue due più grandi passioni, quella dello scrivere ma anche quella per Milano, sua città adottiva. Perché, pur essendo più milanese dei milanesi, Giorgio era un’anima di frontiera che veniva da lontano.

Il milanese di Kiev

Scerbanenco era nato a Kiev negli ultimi giorni di luglio del 1911 da padre ucraino e madre italiana. Quelli del primo Novecento sono anni cruenti per Russia e Ucraina, stagioni cariche di stravolgimenti e tensioni. Anche per questo Giorgio non conosce un’infanzia facile. All’improvvisa morte del padre, avvenuta durante i moti rivoluzionari, la madre decide di rientrare precipitosamente in patria. A soli sedici anni, il giovane Giorgio deve inoltre abbandonare gli studi per la grave malattia della madre e si mette a sperimentare una moltitudine di piccoli lavori. Guida ambulanze, fa il garzone e finisce a lavorare in fabbrica, alla Borletti di Via Costanza, prima di scoprire un’innata vocazione di correttore bozze e una straordinaria vena da grande scrittore. La sua Lettera 22 e un’incontenibile fantasia gli permettono così di spaziare in un ampio spettro di generi e stili, dalla fantascienza al western, prima di trovare nel “giallo” uno stabile riferimento e la sua cifra più personale.

Il lato oscuro del boom economico

La scrittura di Scerbanenco e i suoi racconti noir costituiscono di fatto il rovescio della medaglia dell’Italia del boom: rapine, ammazzamenti, regolamenti di conti e una denso catalogo di degradi assortiti in una cupa e plumbea Milano criminale costituiscono, infatti, un pugno nello stomaco del Belpaese della crescita economica, del consumismo e del benessere. Scerbanenco reinventa e innova il genere poliziesco affrancandolo dalle ispirazioni americane e dagli stereotipi. Il suo dubbioso e riflessivo detective, l’ex medico radiato Duca Lamberti, che ricalca peraltro la sua stessa enigmatica e scheggiata magrezza, si aggira per una Milano a delinquere sin lì del tutto inedita, notturna, cinica, dura e indifferente: un anonimo agglomerato urbano che sembra l’inquietante e lucida anticipazione di ciò che fatalmente sarebbe diventata un decennio più tardi con le scorribande di Turatello, Vallanzasca o della banda Cavallero. Il suo stile, caratterizzato da un ritmo incalzante e dalla realistica cura dei particolari che tanto lo avvicina a Simenon, riesce da subito gradito al pubblico dell’epoca e diventa un punto di riferimento anche per il cinema influenzando diverse generazioni di registi italiani e stranieri.

Il romanzo nero

Il suo romanzo nero “calibro 9” racconta di gente triste in balia di un destino torbido ma capace, al contempo, di scelte fatali, esistenze inquiete votate alla vendetta più atroce ma pur sempre all’interno di un ruvido codice morale dove chi sbaglia paga sempre il prezzo più alto. I suoi libri parlano di ottusità, predestinazione, disagio, umiliazione, disperazione, disincanto e violenza, come fossero primitive reazioni a un modello di vita narcisistico e agli illusori bagliori di un futuro già perso, vacuo e tragicamente distante. In quelle pagine Scerbanenco ha straordinariamente anticipato la deriva metropolitana che si manifesterà in tutta la sua piena e vivida crudezza solo qualche anno più tardi, dopo la sua prematura scomparsa, con la controversa stagione dei gangster e delle bande, degli inseguimenti in pieno giorno, dei sequestri e dei massacri. Nelle sue mani, Milano, imprigionata da perbenismo, bassi istinti e laceranti inquietudini, diventa una città lunare e violenta, dove il crimine si affaccia tra le vetrine dei negozi come tra i pilastri dei cavalcavia. Nei suoi racconti lo squallore crudele dei bassifondi rimane il vero protagonista e consegna ai posteri una straordinaria metafora letteraria. Per tutta la sua breve vita Scerbanenco ha inseguito le incerte parabole di un’umanità meschina e perduta, disposta a tutto, anche alla più efferata bassezza, pur di sbarcare il lunario alla ricerca del proprio posto al sole. Giorgio scompare improvvisamente a soli quarantotto anni, per una malattia contratta negli anni della fabbrica. Si congeda dal suo mondo all’apice di fama e notorietà. Chissà dove si sarebbe spinta la sua penna al cospetto del complicato decennio di sangue e misteri che si sarebbe aperto di lì a poco.

“Avevo già passato i trent’anni e avrei dovuto imparare qualcosa da quello che mi era successo. Ma solo più tardi imparai che non s’impara quasi mai niente. Noi rimaniamo sempre gli stessi. Le esperienze della vita, gli insegnamenti delle persone più sagge, ci impolverano un poco, come quando camminiamo per una vecchia strada di campagna, ma basta soffiare su quel po’ di polvere perché noi ritorniamo tali e quali come eravamo prima di ogni insegnamento. Così continuai a commettere gli stessi errori.”