Once in a lifetime: Giuseppe Berto

Il 1 novembre 1978 muore a Roma Giuseppe Berto, di professione scrittore. Tra tanti autori che hanno giocato con l’insinuante attrattiva di prospettive inedite e diverse, ve ne sono alcuni che hanno avuto il raro pregio di spingersi ben oltre il riflesso della superficie per calarsi nel pozzo delle emozioni, delle paure e delle incertezze sino a violare le più protette camere dei segreti, sino all’intima essenza delle nostre personalità. Tra questi, Giuseppe Berto fu tra i più profondi e inquieti.

Un autore inquieto e scorbutico

Giuseppe fu scrittore scorbutico e complesso. Scelse sempre strade impervie e disagiate e lo fece con ostinazione e tenacia. Perché Berto non inseguiva il successo ma solo una strana forma di cura. Fu per quella via personale e dolorosa che riuscì nella difficile impresa di ingannare il tempo staccando il profilo ben oltre la breve stagione letteraria di cui divenne protagonista. Berto ha infatti scavato a lungo tra le pieghe della coscienza nel tentativo di raccontare le pagine più in ombra, quelle spesso contese alla solitudine della sconfitta, allo smarrimento di un difficile quotidiano o al sottile tormento dell’esistere. Berto prese questi temi e li indagò trasponendoli in una dimensione più generale, universale e collettiva. Nei suoi lavori più conosciuti, come “Il male oscuro”, “Il cielo è rosso” o “Anonimo veneziano”, Berto fruga infatti nelle travagliate esperienze personali sino ad intrecciare la sua silenziosa sofferenza con lo spaccato emotivo di un’Italia fragile e compromessa, debole e irrisolta, anticipando una lunga e fortunata stagione espressiva e letteraria.

Un outsider

Giuseppe era un outsider, uno scrittore distante da tutto e da tutti. Questa sua preziosa unicità, come accade spesso, finì per penalizzarlo. Molti critici attribuirono infatti alla sua scrittura un carattere eccessivamente altero, altri tentarono invano di catalogarla forzando temi e tracce. Il suo primo romanzo, “Il cielo è rosso”, aprì un acceso dibattito e la critica si divise. Quel suo primo racconto gli guadagna però la stima e l’attenzione di Ernest Hemingway. Racconta la guerra dal punto di vista di quattro ragazzi che sopravvivono a un bombardamento, descrive il loro struggimento, i dubbi, il dolore e lo sconforto di essere rimasti da soli ad affrontare un mondo cupo dove “la gente non ha altro scopo di vivere che quello di procurarsi il cibo per non morire”. Quell’esordio letterario duro, poetico, drammatico e sensibile, accredita registri introspettivi, avvicina dubbi e incertezze. Quel suo passo dolente e tragico non piace al pari di alcune posizioni poco ortodosse e nichiliste. Nelle pagine del libro non si respira alcun ottimismo, non compaiono spinte ideali o speranze di rinascita. Per molti critici sono tutti buoni motivi per non dedicargli troppo spazio.

Un austero silenzio

Nell’immediato dopoguerra tutto questo poteva costare molto caro. Finì così che la comunità degli scrittori gli rimproverò pubblicamente il suo passato di combattente emarginandolo dai salotti. Giuseppe non reagì. Lasciò fare trincerandosi dietro un austero silenzio che certo non favorì fama e notorietà nè gli regalò le chances che avrebbe meritato. Attaccato da destra e da sinistra, disorganico a ogni schieramento o partito, Berto rimase in compagnia solo della sua scrittura e con essa scese ancora di più nelle profondità nascoste dell’animo umano.

“Il male oscuro”

La scomparsa del padre lo segnò pesantemente. Berto andò così inconto a una pesante nevrosi che lo fece sprofondare nel silenzio di una dolorosa crisi personale. Fu lì, in quel pozzo infinito, che diede vita al suo massimo capolavoro, al suo romanzo di maggiore successo. “Il male oscuro”, pubblicato da Rizzoli nel 1964, respira le medesime atmosfere di Svevo e Gadda e coinvolge il lettore al ritmo lento e avvolgente di un viaggio a ritroso. Il romanzo parla di lui e dell’abisso, del rapporto conflittuale con il padre e dell’emergere di un’inquietudine destinata a permeare ogni orizzonte sino a trasformarsi in palpabile angoscia, sino a farsi ansia se non addirittura paranoia. “Il male oscuro” è la cronaca di una psicosi da cui è praticamente impossibile uscire, è il diario di una malattia da cui non si guarisce ma con cui si deve convivere.. Quello di Berto è uno straordinario viaggio ai confini della catastrofe, uno scandaglio nelle profondità dell’anima a caccia di cadute e sprofondi. E’ il racconto di un diverso e doloroso punto di vista.

Uno stile epocale e innovativo

La sua rimane una scrittura radicale e d’avanguardia. Berto rivoluziona i canoni e gli stessi stilemmi dello scrivere, gettando alle ortiche forme e convenzioni in favore di uno stile innovativo e originale che scioglie la narrazione in una prosa priva di grammatica e regole ortodosse, di punti e virgole, veloce, drammatica, incalzante, ipnotica e onirica. Proprio quel peculiare incrocio di temi non convenzionali, registri emotivi e stili originali lo accosterà a Svevo, Gadda, Celine e Bernhard facendone uno dei più grandi talenti del Novecento italiano.

“Hemingway diceva che uno scrittore, se è abbastanza buono, deve misurarsi ogni giorno con l’eternità, o con l’assenza di eternità. Io non posso giurare d’essere uno scrittore abbastanza buono, però la fatica di misurarmi con l’eternità o, peggio, con l’assenza di eternità, la conosco anch’io.”