Once in a lifetime: Roberto Boninsegna

Il 13 novembre 1943 nasce a Mantova Roberto Boninsegna, futuro bomber di professione. Per quelli della mia generazione Boninsegna si chiamava “Bonimba”. Quel soprannome era frutto della magica arte letteraria del sommo Brera, che lo voleva agile come un acrobata. Perché Gianni, che stravedeva per le sue acrobazie, lo aveva accomunato a Bagonghi, un piccolo e leggero nano che del Circo Togni aveva fatto la fortuna. Come lui, Roberto, che tanto alto non era, si arrampicava in aria acrobaticamente sino a toccare vertigini d’artista. Come il celebre Bagonghi, Roberto dispensava giocate in cambio di applausi raccontando un calcio realistico e reale, sognato e sognante ma, al contempo, sempre connesso a un presente quotidiano fatto di sudore, dedizione, tanta fatica e passione.

Il grande “Bonimba”

“Bonimba” non abitava, però, una dimensione letteraria. Agile, Boninsegna, lo era sul serio. Lo testimoniano i tanti gol impossibili che era solito realizzare e gli svariati centimetri che affibbiava, a ogni salto, a tutti gli avversari, anche a quelli ben più alti di lui. “Bonimba” era la rovesciata in volo, l’anticipo di rapina a mezz’aria, la sciabolata a fil di palo, il rasoterra che pelava l’erba, il colpo di testa spettacolare, in tuffo plastico, a sfidare la solita giungla di fango, ginocchia e tacchetti. Era la rete che si gonfiava nella nebbia autunnale, il suono secco del legno che si opponeva al pallone scagliato dalla media distanza, l’urlo di San Siro che si alzava alto tra l’ultimo anello e il cielo per rotolare fragorosamente sino al terreno di gioco. “Bonimba” abitava un calcio di fenomeni e comparse, rapinatori e artisti. Era uno dei massimi protagonisti di quella fantasmagorica compagnia di romantici esteti, uno che al calcio portava rispetto prendendo quell’avventura sempre per il verso giusto, con senso della misura, talento e intelligenza. Ovunque è stato si è lasciato alle spalle una lunga scia di ricordi indelebili, ovunque ha giocato si è guadagnato applausi e ammirazione.

Una carriera intensa e appassionata

Roberto era uno che non si tirava mai indietro. Era un lottatore, un bucaniere coriaceo, determinato e sanguigno quanto un “sorbir d’agnoli” della sua amata pianura, pronto a infiammarsi nel contrasto, a entrare in mischia, a discutere, ad alzare la voce e a guadagnarsi rispetto, pagando spesso per l’ardore della protesta. Era un attaccante completo, egoista quanto bastava, dal tiro formidabile, dalla rapidità banditesca e dall’astuzia sopraffina. Aveva l’innata e non comune abilità di farsi trovare sempre al posto giusto al momento giusto, al centro dell’azione e negli immediati dintorni dell’area avversaria. Di mestiere faceva il bomber, scuoteva reti e curve, ma era anche molto di più. Perché “Bonimba”, allora come oggi, era una persona autentica, franca, sincera e generosa, a cui è spesso toccato di dover pagare dazio per i pregi più che per i difetti. Boninsegna è stato un calcio emozionante, gli anni Settanta, la notte incantata di Italia-Germania quattro a tre, un gol da cineteca e un’assist d’artista per la celebre magia euclidea di Rivera. “Bonimba” è stato il Cagliari dei sogni, quello di Nenè e di “Rombo di tuono”, e l’Inter dello scudetto, del titolo di capocannoniere, della ribalta internazionale e delle notti di Coppa. Suo malgrado, a causa di un discusso intreccio di mercato con Anastasi, diventò anche il terminale offensivo della Juventus, acerrima rivale dei nerazzurri. Con i bianconeri di Trapattoni e Boniperti, Bettega e Causio, Gentile e Tardelli, ritrovò stimoli e la tempra giovanile degli esordi raccogliendo scudetti ed allori. Poi, dopo tanto peregrinare, “Bonimba” indossò anche la maglia gialloblu, quella con il numero nove sulle spalle, in una delle stagioni più difficili e controverse. Approdò all’Hellas Verona nel lontano 1979, in un’annata difficile, quella della gestione Veneranda in Serie B, e al Bentegodi chiuse di fatto una carriera durata quasi vent’anni e ben 277 reti.

Nel ricordo del padre sindacalista

Quattro anni fa, quasi in concomitanza con i suoi primi settant’anni, invece di accomodarsi in qualche salotto televisivo a godersi il meritato calembour di complimenti, se ne andò, in compagnia dell’inesauribile Adalberto Scemma, a trovare gli operai della Cartiera Burgo, in presidio da diversi mesi nel tentativo di salvare la fabbrica, il posto di lavoro e un pezzo della loro vita. Non ci andò, però, per esser festeggiato, chiarì subito, ma per stare con loro, per solidarietà ed anche per ricordare il padre Bruno, operaio saldatore e storico sindacalista dell’azienda, scomparso a sessantuno anni per una delle tante tragiche malattie di fabbrica, una di quelle che si “ereditavano” in reparto e che hanno falciato ben più anime di quelle immolatesi sui campi di battaglia. Ci andò per rendere omaggio non solo al proprio percorso familiare, ma anche alla storia di molte altre migliaia di persone, perché, a dispetto dei bagliori della ribalta, è sempre la passione con cui si affronta il domani a fare sempre la differenza.