Once in a lifetime: George Everest

Il 1 dicembre 1866 muore a Greenwich, sulle rive del Tamigi, Sir George Everest, di professione geografo e cartografo. La storia è sempre scritta dai vincitori. La ragione dei colonizzatori ha infatti disposto non solo degli sconfitti ma anche delle loro radici culturali, imponendo nuovi modelli e strutture. L’Occidente ha così condizionato lo sviluppo di intere altre aree del pianeta. Tra tanti altri, il linguaggio si è rivelato lo strumento più formidabile.

Una nuova toponomastica

Molte zone, continenti, luoghi, regioni e province, anche nel cuore della “civilissima” Europa, come pure all’interno dei nostri confini, hanno subito nel corso dei secoli la sorte di dover fare i conti, oltre che con l’occupazione, la violenza e la deportazione, anche con diversi idiomi e vulgate. Dalla grammatica di una nuova lingua è spesso transitata la toponomastica e il tentativo di espropriare significative porzioni territoriali. Fiumi, valli e città hanno così mutato nome al cambiare delle bandiere issate sui pennoni. In alcuni casi, la cosa però non è filata via liscia finendo per innescare accesi dibattiti anche all’interno dei ranghi dei conquistatori. Proprio questa è la singolare storia del nome della montagna più alta del mondo.

Un talento della rilevazione geografica

George Everest era uno stimato cartografo. Assoluta autorità in materia, George diresse per molti anni la prestigiosa “Great Trigonometric Survey”, la più grande indagine topografica mai varata da una potenza europea su un territorio coloniale. Il motivo di quell’importante investimento scientifico era sostanzialmente legato al ruolo strategico della Compagnia delle Indie Orientali sullo scacchiere indiano e alla necessità, quindi, di conoscere il territorio più e meglio degli avversari, perché, come già raccontava Marco Terenzio Varrone, le battaglie si “vincevano seduti”, davanti cioè a mappe e carte. George veniva dal Galles. Aveva avuto buoni natali e un superiore livello di istruzione. Eccelleva in tutte le arti matematiche e in quelle della geometria ed era uscito dall’Accademia Militare di Woolwish con ottimi voti. Ne era seguito un buon comando nei ranghi dell’Artiglieria. Qui il destino gli aveva fatto incontrare William Lambton, stimato colonnello impegnato in un’ambiziosa campagna di rilevazione del continente indo-asiatico. Everest ereditò da lui quella forte passione e, alla sua morte, ne assunse incarichi e ruolo con il placet della Regina e quello della Royal Geographical Society. George si sarebbe distinto per una sapiente gestione degli affari, per una grande competenza scientifica e per la precisione delle rilevazioni. Il suo compito sarebbe stato quello di ricostruire su una mappa tutta la complessa conformazione geografica della grande colonia britannica.

Topografo ufficiale

Everest rimarrà il topografo ufficiale del territorio indiano dal 1830 al 1844 dedicando ogni energia alla sua opera nell’intento di mappare il continente ponendo particolare attenzione alle strette vallate e ai ripidi versanti della catena himalayana. Per questa complessa e articolata attività si guadagnò la stima e il riconoscimento reale, tanto che nel 1861 venne nominato cavaliere. Il lavoro di George fu particolarmente preciso. Per effettuare le misure ricorse alle tecniche più moderne spostandosi lungo le ripide vallate con grande dispendio di mezzi e competenze. Tra tante altre, sperimentò anche la nuova rivoluzionaria tecnica di celerimensura, che permetteva di misurare le grandezze triangolando i luoghi sulla base della distanza e degli angoli. Per quindici anni Everest disegnò mappe e carte. Il contributo scientifico all’esplorazione di tutta la regione fu incommensurabile.

Un colonizzatore riluttante

Il suo lavoro venne molto apprezzato in patria per via delle immediate ricadute di natura commerciale. Grazie alle sue rilevazioni la Regina esercitò un fermo e discreto controllo su tutta l’area pilotandovi massicci investimenti. Nel 1865 il suo successore, Andrew Waugh, propose di attribuirgli un meritato riconoscimento, uno di quelli rari e speciali che assicurano imperitura memoria. Waugh chiese infatti alla Regina di battezzare in suo onore la cima più alta della catena, sin lì identificata in tutte le cartine, anche quelle britanniche, con il nome di Peak XV. Ma, del tutto inaspettatamente, Sir George, che aveva sempre dimostrato grande rispetto per le genti di quella montagna incantata, si oppose perchè quella vetta bianca e inviolata un nome, anzi due li aveva già. Per i tibetani quel picco portava infatti il nome di Chomolungma (“Madre dell’universo”) mentre i nepalesi lo chiamavano Sagamartha (“Dio del cielo”, dall’antico sanscrito), due termini che, pur nascondendo un diverso punto di vista, celebravano entrambi quell’arcana e misteriosa bellezza. Nonostante quell’inconsueto dissenso, la Corona, occupata da questioni ben più importanti, non volle ascoltare obiezioni e approvò d’ufficio la scelta di Waugh. Accadde così che Sir George, ormai prossimo alla morte, finì, contro la sua volontà, per dare il suo nome alla montagna che lui stesso aveva stabilito essere la più alta al mondo. George non si rassegnò a quell’inusitata decisione ma la vita prese da lui congedo prima di concedergli la possibilità di una formale iniziativa al riguardo. Purtroppo, nemmeno il tempo gli diede poi ragione e, nonostante le sue riserve e l’aspro dibattito che impegnò per parecchio tempo comunità scientifica, quella vetta mantenne, suo malgrado, il suo cognome.