Once in a lifetime: Philip K. Dick

Il 16 dicembre 1928 nasce a Chicago Philip Kindred Dick, di professione scrittore. Dick è uno dei tanti autori a cui il destino ha giocato il supremo e beffardo scherzo di donargli fama solo a distanza di molti anni dalla prematura scomparsa. Invero, questa sorte ricorre spesso nelle singolari vite di chi si è spinto oltre i canoni della propria epoca, di chi ha rotto schemi e infranto tabù, di chi, insomma, ha avuto l’intuito e la fortuna di vedere cose che gli altri hanno percepito solo diversi decenni dopo. E’ il destino di scienziati, di grandi pensatori e di uomini di lettere. E’ il destino di molti padri della moderna fantascienza.

Il mito e le sue menzogne

Il dibattito sulla natura di questo tardivo riconoscimento ha però assunto un carattere stucchevole. Società fortemente omologate ed orientate al consumo lasciano raramente spazio all’irregolarità, alla riflessione e alla libera analisi. Così, la costruzione del mito postumo diventa funzionale, a distanza di decenni dagli avvenimenti, per celebrare una sorta di riparazione post mortem e lavare via distrazioni e soprattutto responsabilità. In questa ritardata pioggia di superlativi, la vita e le traiettorie di molti dei protagonisti passati rimangono però fatalmente sullo sfondo così come era toccato in vita alle loro brillanti idee. Perché la costruzione del mito esige sempre e solo circostanze straordinarie e fuori dal comune, e mal si accomoda con la trama quotidiana di qualità e talento. Ma persone come Dick hanno cambiato il mondo senza ricorrere a ricette magiche o a poteri soprannaturali, senza scomodare quelle preveggenze di cui si è spesso occupato nei suoi racconti, ma semplicemente premendo i tasti di un’ordinaria macchina da scrivere, osservando le ordinarie cose di tutti i giorni da un punto di vista diverso, comprendendo potenzialità inespresse e leggendo i possibili sviluppi nei tragici esiti di quotidiane faccende. Al pari di molti altri intellettuali, Dick ha compreso progresso e tecnologia, perchè, prima che al futuro, li ha connessi al passato, alle inusitate traiettorie dell’essere umano, ai suoi difetti ed ai suoi pregi. Dick è partito proprio da lì, da un presente difficile, complesso e critico e con la lucida visione di un domani connesso e digitale, ha finito per condizionare il futuro, lo ha spinto in una precisa direzione, lo ha reso tangibile e quotidiano, concreto e utile cambiando letteralmemente la vita di tutti i giorni, la nostra come quella di chi lo osteggiò duramente, di medici e psicologi, burocrati e capitani d’industria, luminari e professori, scienziati e ricercatori, studiosi e scrittori, cittadini e poeti.

Una vita difficile e travagliata

La vita infatti a Dick non regalò poi molto. Philip trascorse un’esistenza difficile e travagliata, dura e matrigna, costellata da frustrazioni e sensi di colpa, condizionata fortemente sin dalla più tenera età dal difficile divorzio dei genitori e da un irrisolto conflitto con la madre. Dick dovette infatti seguirla nei suoi continui trasferimenti lungo l’asse che collegava Chicago a Berkeley e quindi a Washington facendo i conti con attacchi frequenti di agorafobia e difficoltà relazionali. Philip era un ragazzino sensibile e geniale. Scriveva infatti poesie e articoli che riscuotevano sempre interesse.  Ciò nonostante, la madre lo spedì in analisi per l’acuirsi dei problemi comportamentali. E’ in quel frangente che si innamora della fantascienza che gli si presenta dalle pagine di “Astounding” e “Unknown”, le due storiche testate dirette da John W. Campbell jr, il fondatore della science fiction contemporanea. A diciotto anni Philip abbandona gli studi e va a vivere per conto proprio. Da lì in avanti infilerà un assortito catalogo di scelte sbagliate, matrimoni falliti, droghe, stupefacenti, anfetamine, avventure imprenditoriali e relazioni burrascose. Ma tra le scie di quegli incerti, Dick prende a scrivere e a pubblicare, con costanza e caparbietà, tutti i temi che diverranno centrali nel suo capitale narrativo, come il rapporto tra cittadini e istituzioni o quello tra realtà e finzione, come le contraddizioni di una vita artificiale e il pericolo di comunicazione pervasiva, come le mille incognite delle reti digitali.

Un tempo diverso dal nostro

Nonostante un’esistenza condotta sempre sul filo del rasoio, Philip K. Dick amava davvero la vita e le sue strane derive. Dick maneggiava la fantascienza – all’epoca poco più di un sottogenere disdegnato dai salotti letterari – attraverso un filtro distopico per mettere alla berlina le strutture sociali e le architetture di potere con cui doveva quotidianamente fare i conti e da cui veniva spesso messo alla porta con supponenza e arroganza. Dick ha vissuto un tempo diverso dal nostro rimanendo almeno dieci passi avanti al gruppo. Perché Philip ha visto prima di tutti gli altri l’intreccio strategico delle arti espressive, del cinema, della musica e del fumetto, ha intuito l’importanza della tecnologia digitale, ha colto le contraddizioni dell’animo umano e il dualismo della società dei consumi.

Un “oscuro scrutare” di orizzonti

La sua esistenza, trascorsa tra dolorose parentesi, allucinazioni, esperienze mistiche e un “oscuro scrutare” di orizzonti, gli chiese improvvisamente conto di tutte quelle drammatiche svolte. Un ictus lo colse all’alba del 2 marzo 1982 trascinandolo nella parte oscura proprio mentre Ridley Scott stava finendo di girare “Blade Runner”, capolavoro tratto da un suo racconto del 1968 “Do Androids Dream of Electric Sheep?”. Dick rimane a tutt’oggi un autore frequentato e ammirato in tutti gli ambienti letterari. Dai suoi racconti hanno tratto profitto un po’ tutti, anche quelli che non gli lasciarono spazio in vita, dall’industria cinematografica all’editoria. Le sue idee sono state saccheggiate da curatori, media guru, scrittori e pure politici, le sue visioni hanno persino suggerito scenari credibili agli scienziati e consegnato interessanti opzioni alle politiche di governance più illuminate. I suoi libri rimangono, al contempo, rifugi dalla realtà e chiare visioni dì questa, mentre i personaggi che li abitano si agitano in perenne balia dell’illusione di vivere in un mondo stabile, fatto di regole, ordine e certezza. Ma, fatalmente, questo loro mondo finisce sempre in mille pezzi, ed è forse proprio questo il tratto che rende la sua visionaria scrittura una rappresentazione moderna, poetica ed esistenziale dell’incertezza e della precarietà dell’uomo.

“Strani tempi, quelli in cui viviamo. Possiamo viaggiare dovunque ci piace, anche sugli altri pianeti. Ma per che cosa? Per starcene seduti un giorno dopo l’altro, mentre il nostro morale e la nostra speranza lentamente ci abbandonano.”