Once in a lifetime: Tina Merlin

Il 22 dicembre 1991 muore a Belluno all’età di 65 anni Clementina Merlin, Tina per gli amici e i lettori, di professione giornalista e scrittrice. Il suo nome si lega ad una delle più atroci tragedie del dopoguerra italiano, un dramma di incredibile insensatezza, specchio di un modello di sviluppo sconsiderato e criminale che per decenni ha anteposto gli interessi di pochi al bene di tutti sacrificando i destini di migliaia di persone sull’altare di vili convenienze e censurabili opportunità.

Uno spirito di montagna

Tina era uno spirito d’alta quota. Da giovane aveva respirato l’aria clandestina delle cime e la vertigine delle ripide vallate. Le aveva attraversate di notte, trafelata e di gran passo, nascondendosi alle pattuglie naziste. Lo aveva fatto per dare il suo contributo alla lotta di liberazione, per fare del suo paese un posto migliore dove vivere e crescere le proprie speranze. Tina aveva fatto la staffetta partigiana, svolgendo una preziosa attività di collegamento tra le diverse formazioni di combattenti irregolari sfidando i controlli delle truppe tedesche. Quell’esperienza si sarebbe rivelata fondamentale per la sua formazione. In quei frangenti, nelle baite in quota e nelle infinite notti trascorse sotto le stelle nell’incombente pericolo di qualche retata avrebbe compreso fino in fondo il valore della libertà.

Il lavoro come impegno sociale

All’indomani della liberazione, Tina prese così a scrivere per quotidiani e periodici raccontando il punto di vista degli ultimi e la vita dura di chi era rimasto a presidiare la montagna da un progresso che, a dispetto delle apparenze, riservava inquietanti sorprese. Si era subito fatta notare per il coraggio e lo spirito con cui dava voce alle comunità locali. Fu così, in veste di appassionata giornalista, che si imbattè nei quotidiani soprusi e negli espropri forzosi che la SADE infliggeva alle popolazioni delle valli in occasione della costruzione di invasi artificiali, bacini e dighe. Tina girava il Cadore e il Zoldano, e rendeva conto. Divenne da subito scomoda e invisa al potere, una testa calda che andava arginata ad ogni costo e con ogni mezzo.

Valesella, Cismon, Pontesei e Vajont

Ma Tina non si fermò mai. Non lo fece né davanti alle intimidazioni né alle numerose querele e denunce. Continuava a raccontare con grande trasporto la disperazione e lo sconforto della gente della montagna che doveva abbandonare in silenzio le case dove era nata e i pascoli dove era cresciuta per fare spazio al ricco business dell’industria idroelettrica, già in odore di nazionalizzazione. Valesella, Cismon, Pontesei e, da ultimo, Vajont. La Merlin è l’unica cronista ad occuparsene, l’unica a scriverne, ad insistere, a cercare ostinatamente notizie e, soprattutto, a fare domande che rimangono senza risposta. Lei non molla. Il caso della diga e dell’enorme invaso nella gola sopra Longarone è il più preoccupante. Lì la situazione si è fatta davvero critica perchè la montagna è instabile, perchè il monte Toc è già venuto giù in passato, perchè i paesi di Erto e Casso sono troppo vicini all’invaso, perchè quella diga è troppo grande e non rispetta la morfologia dei luoghi, perché ci sono un sacco di persone, di bambini, di mamme e padri che rischiano la propria vita.

Vajont, 9 ottobre 1963, ore 22:39

La sua è un’indagine vecchio stampo. Dichiarerà in seguito che quello era il modo più naturale per continuare a fare quello che aveva fatto nella resistenza, per stare dalla parte dei deboli e opporsi alle ingiustizie. Tina viene denunciata dai “paroni” della SADE e dai Carabinieri per “diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico” e finisce addirittura sotto processo a Milano. Verrà in seguito scagionata ed assolta, perchè quello che aveva scritto e paventato si era nel frattempo trasformato in una tragica e crudele realtà. Sul Vajont, a Erto, Casso, Longarone, Castellavazzo, Pirago, Rivalta, Villanova e Fae, si consuma infatti una della più insensate, colpevoli e atroci tragedie del secolo scorso. Alle 22:39 del 9 ottobre 1963 gli incubi e le paure di Tina, quelli di cui si è occupata per anni dalle pagine de “L’Unità”, si materializzano nello spazio di una manciata di pochi fragorosi secondi in cui si scatena l’inferno. Un’enorme frana, grande come mezza montagna, si stacca dal Toc e piomba nel lago sino ad alzare un’onda d’acqua violenta, terrificante e assassina, alta oltre 260 metri, che risale veloce la montagna, salta la diga e si getta giù per la stretta gola nella valle, centinaia di metri più in basso, rovinando al suolo con la forza distruttiva di due bombe atomiche di Nagasaki e cancellando in un solo colpo paesi, storie, speranze, sogni, 1910 esistenze e seminando ovunque morte e disperazione.

Una tragedia del malaffare e del disprezzo

Una meschina tragedia del malaffare e del disprezzo del potere e dei governanti per le popolazioni locali e le loro proteste: questo è il Vajont. Perchè tutti sapevano ma nessuno si mosse. Questa storia diventerà un accorato libro, “Sulla pelle viva”, che dovrà però attendere quasi vent’anni prima di trovare un editore disposto a rischiare. Nel frattempo Tina avrebbe continuato a svolgere il suo lavoro raccontando la montagna e il nostro paese dal punto di vista di chi non aveva parola. Morirà il 22 dicembre del 1991 in silenzio e senza clamore, del tutto ignorata dai media nazionali. Tina se ne va solo sei anni prima che l’orazione civile scritta e portata magistralmente in scena in diretta televisiva da Marco Paolini le restituisse l’onore della verità.

“La mia non era una lotta contro il progresso, ma contro chi in nome del progresso si riempiva il portafoglio a spese altrui”.