Once in a lifetime: Fulvio Bernardini

Il 28 dicembre 1905 nasce a Roma Fulvio Bernardini, di professione calciatore, allenatore e dirigente. Fulvio ha ammaestrato il pallone e il suo infinito rotolare per più di sessanta lunghi anni attraversando tutta la storia del football moderno. Ne è stato un protagonista sia sul terreno di gioco sia al di fuori, quando, grazie a tutta quell’esperienza, andò ad accomodarsi in panchina a governare uomini, schemi e destini. Perché “Fuffo” aveva una qualità: sembrava sempre cogliere al volo equilibri arcani e verità profonde. Fu grazie a queste doti che sarebbe diventato uno dei più importanti allenatori di sempre.

Il destino del “Dottore”

La brillante carriera del “Dottore”, soprannome legato ad una laurea in Scienze Economiche e ad un contegno sempre regale, dignitoso, signorile e riflessivo, è stata ricca di soddisfazioni, anche se i capricci della sorte gli hanno regalato più da allenatore che da calciatore, imponendolo agli annali come una delle figure più influenti del movimento calcistico nazionale. Eppure in campo Fulvio era un giocatore dai “piedi buoni”, di grande intelligenza e determinazione. Tra i pali della porta avrebbe fatto una carriera folgorante ma un violento calcio in testa rimediato nel bel mezzo di una furibonda mischia cambiò il suo destino. Lo spavento fu enorme. I genitori lo supplicarono di cambiare sport o, quantomeno, di scegliersi un ruolo meno pericoloso. Fu così che si improvvisò centravanti. Fu così che fece fortuna. Con la maglia dell’Inter trovò spesso la via del gol ma in nazionale Vittorio Pozzo lo arretrò a centrocampista trovandogli un buon posto dietro alle punte, in quella cabina di regia che, ancora oggi, nell’età della tattica liquida, continua a tormentare i sogni del calcio nostrano. Bernardini divenne così un saldo riferimento del centrocampo azzurro, uno dei perni del “Metodo”, perché alla palla dava confidenza meglio di tutti i suoi compagni. La leggenda vuole che fosse proprio questo il motivo per il quale Pozzo finì per preferirgli Ferraris e Monti, calciatori più disciplinati e dinamici ma assai meno dotati sotto l’aspetto tecnico. Con il ruvido tecnico sarebbe nato un profondo dissidio che gli sarebbe costato una buona fetta di futuro. Perché da parte sua, Bernardini non comprese mai come fosse possibile sacrificare talento e capacità per la rigida applicazione di uno schema. Quella ferita non si sarebbe mai più rimarginata. Fulvio giurò infatti a se stesso che se mai avesse allenato una squadra non avrebbe anteposto la tattica alla bravura dei calciatori. Il suo non fu solo un patto ma una sorta di premonizione. Perché Fulvio, una volta smessi maglia e scarpini, intraprese davvero una splendida carriera da allenatore riscuotendo ineguagliati successi e rompendo più volte lo strapotere di Juventus, Milan e Inter sino a conquistare due storici scudetti, nel 1956, con la Fiorentina di Rosetta, Julinho e Montuori, e, nel 1964, con il Bologna di Pascutti, Ianich, Bulgarelli, Haller, Nielsen e Fogli. “Fuffo” si dimostrò allenatore moderno e attento anche quando andò ad accomodarsi su altre panchine regalando sempre un calcio efficente e adattando ogni precetto tattico alle attitudini e alle caratteristiche dei suoi giocatori.

Uno straordinario uomo di cultura

Come Chapman, Fulvio guardava sempre al futuro. Il “Dottore” era uomo di cultura e buon senso: masticava calcio fidandosi dell’istinto e di uno spiccato senso per l’innovazione e il cambiamento. Perchè Fulvio riconosceva il talento a prima vista e si era abituato a lavorare sulle complesse trame della materia umana facendo leva sulle giuste motivazioni e su quella speciale alchimia che trasforma sempre la resilienza in una tattica formidabile e vincente. Bernardini pensava infatti che gli schemi dovessero sempre fare i conti con l’irrazionalità, la stessa che governa la volubile volta della sfera celeste. Erano quindi i moduli e le tattiche a doversi adattare al capitale umano e non il contrario. Questa sua grande lucidità rovesciò in diverse occasioni il destino di molte singolari avventure calcistiche, guadagnandogli stima e applausi anche presso avversari e colleghi.

Il difficile mestiere di “traghettatore

Non fu quindi un caso se la Federazione decise di rivolgersi a lui per risollevare le sorti del “baraccone” azzurro dopo la disastrosa spedizione ai Mondiali tedeschi del 1974. Bernardini fece del suo meglio. Voltò pagina, cercando di diluire il peso delle lunghe “tenebre” arpiniane, figlie di scontri tra clan e di veti incrociati, di liti, rancori e vacui protagonismi. La sua gestione segnò un deciso cambio di passo nella filosofia delle scelte aprendo finalmente alle giovani realtà espresse dal campionato e chiudendo per sempre la porta alle pretese dei “senatori”. Ma la sua esperienza a Coverciano non durò a lungo per via di qualche sconfitta di troppo e per il prezzo di una lunga spirale di velenose critiche. Così, dopo soli due anni, Bernardini passò la mano a Bearzot, ma, come disse lo stesso “Vecio”, la sua opera si rivelò determinante nel rompere gli schemi gettando le basi per la conquista del titolo mondiale in Spagna nel 1982. Come Rocco, Viani, Scopigno, Liedholm, Pesaola, Giagnoni, Herrera e lo stesso Bearzot, Bernardini incarnò il respiro profondo del football, il suo coraggio, la sua intelligenza. Un giorno, poco prima di un infuocato Sampdoria – Milan, a un giornalista che si meravigliava del motivo per cui non disponesse una stretta marcatura a uomo su Rivera replicò deciso e senza esitazione: “Si ricordi che il pubblico ha pagato il prezzo del biglietto e merita dunque il miglior spettacolo!”.