Once in a lifetime: Dino Meneghin

Il 18 gennaio 1950 nasce ad Alano di Piave, in provincia di Belluno, Dino Meneghin, di professione cestita e dirigente sportivo. Il suo nome è autentica leggenda per lo sport italiano. Ad affidarlo alla storia sono stati tutti gli strabilianti risultati conseguiti, gli 8.500 punti siglati in 836 partite, una carriera durata ventotto anni, un palmares che tiene assieme 12 campionati, 6 Coppe Italia, 7 Coppe dei Campioni, 2 Coppe delle Coppe, 1 Coppa Korać e 4 Coppe Intercontinentali nonché la proverbiale serietà e competenza con cui ha svolto tutti gli incarichi affidatigli.

Due metri e zero quattro di potenza e precisione

Meneghin è stato il giocatore più vincente del basket europeo. Dall’alto dei suoi due metri e zero quattro, in campo faceva quello che voleva o quantomeno così dava da intendere a pubblico e avversari. Si muoveva come un’ala ma giocava centro, macinava punti arrivando sempre in doppia cifra, conquistava rimbalzi, difendeva palloni e chiudeva spazi. Era accorto e arcigno in difesa, lucido e tattico nel far girar palla, scaltro e rapido nel servire il compagno nonchè quasi infallibile sotto canestro. Con lui in campo i quintetti assumevano sempre consistenza ed equilibrio. Dino dava concretezza e sicurezza ai compagni, distribuiva palloni e fiducia. I suoi fulminanti esordi coincisero con la straordinaria parabola sportiva della Ignis Varese, con quel fantastico quintetto le cui imprese filtravano a tarda notte dai filmati sgranati in bianco e nero della Domenica Sportiva.

Piccole cose e grandi imprese

Fu scoperto da Nicola Messina, responsabile del settore giovanile. Meneghin ricorda ancora l’emozione del suo primo allenamento, quando arrivò bello carico in palestra con un paio di Superga rosse ai piedi. Messina lo scrutò dalla testa ai piedi e alla vista delle scarpette dello stesso colore degli acerrimi nemici della Simmenthal Milano disse con serafica calma: “Ok, la prima cosa da fare è cambiare le scarpe…”. Quel basket era fatto di piccole cose e grandi imprese, di allenamenti massacranti e scontri epici, di tabelloni assediati e scudetti vinti all’ultimo canestro, sulla sirena dell’ultimo secondo dell’ultima partita. Quel basket, lo stesso frequentato da Marzorati, Ossola, Morse, Yelverton, Gallinari, era emozione e poesia, un condensato di energia, tattica, tecnica e velocità, una frontiera popolata da “mani calde” e polmoni d’acciaio dove per fare risultato dovevi affidarti ai nervi, all’istinto e alla “pancia” prima che ai muscoli.

Varese, prima di tutto

A un certo punto della storia, era il 1970 e lui aveva solo vent’anni, lo cercano addirittura dagli States per offrirgli un ingaggio da professionista. E’ la prima volta assoluta per un cestista italiano. A chiamare sono gli Atlanta Hawks che lo scelgono all’11° giro del draft NBA. E’ come se si spalancassero le porte del cielo, è la realizzazione di un sogno spesso vanamente inseguito dai più grandi campioni. Ma Dino dice di no. Dice che è presto e che c’è ancora tempo. Lui pensa che non sia una bella cosa andare fare il professionista oltre oceano per poi tornare a fare il dilettante. Così Meneghin rifiuta cortesemente con grande serenità e fermezza, perché vuole rimanere a Varese, perché lì ha un lavoro da svolgere e da portare a termine, perchè vuole vincere dove è cresciuto. L’essenza di Dino è tutta in quella decisione saggia e autorevole. Non è fatto per rimanere ostaggio dei sogni e si dimostra capace di sottrarsi anche alle illusioni perché a questa vita tocca essere pratico e attento, preciso e concentrato. Finirà comunque che gli States si ricorderanno di lui. Trent’anni più tardi infatti diventerà il primo giocatore italiano a entrare nella Hall of Fame del Naismith Memorial raccogliendo così uno dei massimi riconoscimenti alla carriera che un giocatore di pallacanestro possa ricevere.

Milano ovvero l’era del “Nano ghiacciato”

Da Varese si sposterà sei anni più tardi. Andrà a Milano, all’Olimpia, ad aprire un altro ciclo d’oro sotto la direzione del “Nano ghiacciato”, Dan Peterson, e in buona compagnia di un drappello d’inarrivabili campioni come D’Antoni, Boselli e Premier. Nei miei ricordi Meneghin era circondato da una magica aurea. Quando si muoveva sul parquet sembrava danzare sospeso da terra. Con quella forza e quella classe avrebbe potuto avere tutto e certo non avrebbe sfigurato nemmeno in un quintetto di “All Stars”. Perché Dino trattava la palla come i giganti e viaggiava alla stessa altezza dei più grandi, di Frazier, Lanier, Bird, Erving, Magic Johnson o Kareem Abdul Jabbar. Perché, come tutti loro, era un leader naturale, in campo e fuori. Perché ci ha insegnato che in questa esistenza non ci sono miracoli o svolte, colpi di fortuna o scherzi mancini ma solo il percorso che ci siamo scelti, che questa nostra strada è fatta solo di impegni mantenuti, fatica e sudore, perché è solo così che si impara a crescere mettendosi, ogni giorno, in discussione e alla prova. Perché Dino non mollava mai nemmeno quando incappava in un pomeriggio storto.