Once in a lifetime: Johan Cruyff

Il 25 aprile 1947 nasce ad Amsterdam Hendrik Johannes Cruijff, di professione calciatore, allenatore nonché “profeta del gol”.

Ostinato, volitivo e sprezzante

Il compito del brano cronista è spesso gravoso, perché i tempi incombono e le parole buone difettano sempre nei momenti cruciali. E’ proprio in quei momenti che soccorre il mestiere con tutti gli sperimentati attrezzi del caso ed è anche per questo che agli epitaffi celebrativi non si fanno mai le pulci. Pur tuttavia, però, mai come nel caso della sua scomparsa, avvenuta ormai due anni or sono, lo svolazzo retorico è parso stonato e fuori registro rispetto del mondo abitato da Johan. Cruyff, che ha sempre affrontato le avversità di petto e in pubblico senza farsi scudo di grandezza e talento, avrebbe sonoramente dissentito per via di quel carattere ispido che si ritrovava, così deciso, ostinato, volitivo, vanitoso e sprezzante. Perché la sua intera esistenza, trascorsa a governare palloni e incerti, è stata l’antitesi della celebrazione. Perché il suo calcio faceva piazza pulita di schemi e tattiche, di prosopopee e ricami, di vezzi e distinguo. Perché la sua era un’arte concreta e misurabile. Perché, parole a parte, Johann era davvero il più grande, il più originale, il più coraggioso. Anche il più polemico e determinato, al punto da sconfinare talvolta in un’acerba forma di antipatia. Però, per quelli che, come me, hanno cominciato a rincorrere un pallone nei suoi anni migliori, Johan Cruyff, perchè poi i non olandesi lo hanno sempre scritto così il suo cognome, era soprattutto un numero, il quattordici nero in campo arancione.

Quattordici orange

Di questi tempi alle stravaganze numeriche nessuno fa più caso, ma in quel mondo magicamente ingessato i numeri dall’uno all’undici non erano solo certezza ma parte integrante di un indiscutibile dogma. Non esisteva che il portiere indossasse qualcosa di diverso da una maglia nera con il numero uno cucito sulla schiena. Le eccezioni erano rare, preziose e assolutamente meritate, come il maglione verde di Clemence, quello giallo di Shilton o quello grigio di Zoff. In quel mondo fatto di rigide regole numeriche, i Campionati del Mondo rappresentavano il soffio della modernità, la vetrina del futuro.  In quella occasione si poteva anche andare oltre, si potevano sfidare ruoli e ordini alfabetici, affidandosi ai criteri numerici più strampalati, quelli magari dettati da oroscopi, scaramanzie o dagli affascinanti riti della cabala. In quella roulette a qualcuno poteva andare meglio che ad altri. A Johan, ad esempio, andò benissimo, perchè il quattordici che gli venne dato era il suo numero fortunato, ben più del nove che Buckingham e Michels gli avevano fatto indossare sin dagli esordi con l’Ajax. Perché il quattordici glielo aveva affidato in dote il caso, la sorte e un compagno assente per infortunio, e lui ci si era trovato proprio bene. Da quel momento non lo avrebbe più levato.

Genialità e stile

Mistica della numerologia a parte, Johan era davvero la maglia che indossava. Quel numero quattordici comunicava tutta la sua genialità, la creatività e lo stile, qualità assolute che non erano mai sterile sfoggio di bravura ma piuttosto strumento al servizio dei compagni di squadra. Era quello forse il tratto che lo distingueva da un’agguerrita concorrenza di mirabili palleggiatori, giocolieri, maghi e poeti. Quel numero si associava a quel modo “totale” di stare in campo e di muoversi collettivamente senza dare riferimenti. Quel numero irregolare rappresentava tutto ciò che sarebbe stato, il pensiero irriverente di un football diverso, un modo nuovo, agile e istintivo di leggere il campo di gioco. Chissà cosa avrebbero fatto Rivera, Mazzola o Bulgarelli se fossero cresciuti nell’Ajax di quelle straordinarie stagioni, chissà cosa avrebbero regalato se avessero assorbito quella stordente filosofia. Chissà cosa sarebbero diventati e dove sarebbero arrivati. Ma questa è decisamente un’altra storia.

Un filosofo tra pensatori

La verità è che Cruijff era tutto quello che gli altri avrebbero potuto inventare. Johan era quello più lucido, il più elegante, il più influente e il più efficace. Era il filosofo di una squadra di pensatori, quello che giustificava il ricorso al superlativo, a partire dai rapidi movimenti senza palla, dalla visione di gioco e da quella sua splendida giravolta che sconcertava i difensori e che tutti noi piccoli fobici invasati del pallone avevamo imparato a replicare in qualche modo, rischiando di lesionarci tendini e legamenti. Johan ha vinto tutto il possibile, ha fatto scelte epocali, ha opposto rifiuti eccellenti, ha discusso polemicamente con compagni, allenatori, presidenti, colleghi e uomini di stato. Lo ha fatto sempre con coraggio, mettendoci la faccia, senza mai nascondersi dietro il solito velo di ipocrisia. Ha sempre pensato con la sua testa, anche a costo di sbagli e incerti, anche a rischio di indispettire potenti e politici. Lo ha fatto anche quando ha dovuto abbandonare le sigarette, quando il cuore gli ha teso un vigliacco tranello, quando la sua Ajax lo ha “tradito” negandogli un atteso rinnovo o l’incarico a cui ambiva. Lo ha fatto anche quando ha scoperto di dover lottare con un nuovo nemico, uno di quelli che difficilmente si fanno sconfiggere. Ancora una volta non ha avuto paura di raccontarlo in pubblico, sino alla fine.

Il più grande

Da quando aveva chiuso con panchine, sigarette e qualche altro vizietto, si era dedicato con maggiore intensità, a raccontare il calcio ai giovani talenti, finanziando la costruzione di campi e centri sportivi, promuovendo operazioni benefiche e, soprattutto, provocando i campioni di oggi, troppo concentrati, a suo dire, sui muscoli e sulle copertine dei rotocalchi per risultare credibili. Perché lui si era fatto da solo, senza palestre, preparatori e procuratori. Perché lui, Johan, era solo il figlio di un fruttivendolo, perché lo stadio era veramente il suo cortile, perché nonostante avesse un fisico gracile agli allenamenti era il primo a scendere in campo e l’ultimo ad andare sotto le docce, perché quando faceva buio e spegnevano i riflettori lui era ancora là fuori, con i tacchetti sul margine della lunetta dell’area di rigore, a calciare palloni nel sette della porta, a fare gol ai fantasmi e alla sorte. Perché lui faceva il ribelle, ma solo se c’era una causa veramente importante da difendere. Perché era un poeta a cui non servivano le parole. Perché era la magia e il calcio. Perché lui era Johann Cruijff, l’uomo del destino, quello che aveva scrutato nel futuro e aveva visto un sacco di cose. Perché era unico e inimitabile, il più grande di tutti. Proprio per questo, in barba ai soliti buoni pensieri postumi, rimarrà per sempre con noi. “Perchè il senso del calcio è che vinca il migliore, indipendentemente dalla storia, dal prestigio e dal budget”.