Diego Alverà racconta. La leggenda di Jack Dempsey.

In quegli anni così difficili e polverosi la boxe non era uno sport, una disciplina per allenare muscoli e spirito, ma piuttosto un mezzo per scappare a un complicato presente, un modo per lasciarsi alle spalle la fame, gli stenti e la ruggine di tante illusioni frustrate. La boxe era una clamorosa chance. Perché dai guantoni passava non solo la speranza di un immediato riscatto sociale ma anche un’idea di progresso e civiltà, di cittadinanza e futuro. Perché, in quei primi decenni del Novecento, il magico quadrato del ring rappresentava davvero l’America e il suo grande sogno.

La leggenda di “Kid Blackie”

“Kid Blackie” viene dal profondo west, dal ventre oscuro delle pianure assetate, da un mondo nomade fatto di polvere, miseria, raccolti agri e avari. William Harrison Dempsey è figlio di un orizzonte di sudore e pianto in costante lotta con la crisi che lo sta lentamente inghiottendo. Colleziona lavori e delusioni. Fa il minatore, lo sguattero, il contadino, il cowboy, il bellboy e il fattorino. Gira per tutti gli Stati Uniti a caccia di pane e lavoro. Jack è uno spirito di fuoco, pronto a incassare ma anche a restituire. E’ per via di quella epica sudata e scontrosa che impara ad adattarsi ad ogni svolta, ad ogni scherzo del destino, anche a quelli più severi. Tocca più volte il fondo finendo per bivaccare, senza soldi nè risorse, nei sottoscala di qualche vicolo o sulle panchine di Central Park. Ma ogni volta trova la forza di ricominciare da capo. Perché Jack ha un sogno. Perché il giovane Dempsey ha davvero talento e deve solo imparare a gestirlo. Perché Jack sa tirare, sa dare di boxe, sia a mani nude che con i guantoni, ed è veramente bravo. Ha un pugno potentissimo e uno stile tutto suo. Quella boxe non si è mai vista prima. Agile, dinamica e poderosa: un perfetto equilibrio di stile e potenza. Gli manca poco per fare il salto, forse solo un pizzico di fiducia, forse solo un soffio in più di convinzione. Quella vita randagia qualcosa gli ha regalato: Jack infatti ha un vantaggio competitivo, perché lui sa davvero cos’è la fame, sa quanto sia dura l’esistenza se la sfidi dalla tetra prospettiva di un ripostiglio uso letto in compagnia di topi e scarafaggi. E’ tutto questo a spingerlo avanti, a sussurrargli di provarci, di non mollare sino a dove potrà e anche oltre.

Il “massacratore di Manassa”

Così, in pochissimo tempo, passa dai banconi dei bar più malfamati al ring di una palestra. Jack Kearns ne comprende subito le potenzialità e gli schiude le porte del professionismo. Dempsey infila una lunga serie di vittorie, mandando sempre al tappeto gli avversari e scalando il ranking mondiale. Kearns lo prepara per dare l’attacco al titolo mondiale dei pesi massimi. L’occasione più ghiotta arriva puntuale nel 1919 quando la sorte e qualche buon ufficio lo chiamano a sfidare Jess Willard, “il gigante”. Sulla carta non ha alcuna possibilità di farcela. Willard è pugile esperto, pesa 110 chilogrammi ed è alto più di due metri. Per la stampa lo sovrasterà in tutto e per tutto. Ma Dempsey si dimostra molto più atletico. E’ aggressivo, non lascia spazio e, soprattutto, quando parte non si ferma. Jack è una specie di micidiale rullo compressore, una macchina in corsa. Utilizza magistralmente i principi del falling step e del doppio cambio di guardia, controlla e tiene a distanza il suo avversario, gioca di anticipo, incassa inarcando le spalle e parando molti colpi. Jack è già la modernità: usa tutto il suo corpo, danza e aggredisce l’avversario, scaricando su di lui le leve esplosive dei suoi possenti muscoli con improvvise e devastanti combinazioni di ganci. E, poi, Jack ha una cosa che Willard sembra avere perso, la cattiveria, quello spirito che lo ha spinto sino a lì, che l’ossessiona notte e giorno e non gli dà pace, che ad ogni risveglio gli ricorda chi è e da dove viene. Willard non ha scampo. Nel primo round va giù sette volte e si salva solo perché all’ultima caduta suona la campanella. Il match si chiude al terzo round e Willard finisce in ospedale senza due denti e con la mascella spezzata. Nasce così la leggenda di “Kid Blackie, il massacratore di Manassa”.

Il match del secolo

La storia di Jack adesso è in ascesa. Ma Dempsey non si sforza di smussare i tanti angoli del suo carattere, no ha nessuna voglia di farsi malleabile. E’ spaccone e arrogante, strizza d’occhio a potenti, gangsters e malavitosi. Infila spesso la zona d’ombra dove rimane spesso in bilico. Difende il titolo quattro volte in quattro anni. Tutte quelle vittorie però non lo aiutano. Anzi, tutt’altro. Su di lui cominciano a girare brutte voci. Qualcuno sussurra che sia solo un bluff, che abbia mandato al tappeto Willard solo perché aveva nascosto un ferro di cavallo nei guantoni, come in quel celebre film di Chaplin, come nei set di posa di Hollywood. Questa volta sulla sua strada gli mettono un campione argentino di origine italiana, Luis Firpo, imponente e possente quanto e più dei suoi sfidanti. L’incontro va in scena il 14 settembre del 1923 e finirà negli annali come l’incontro di boxe più violento di sempre. Per il match del secolo, il pubblico prende possesso del Polo Ground di New York sin dalla sera precedente. Attorno al ring finiscono per assieparsi oltre centoventimila spettatori che attendono pazienti il primo gong. Aspettano sangue e sudore, aspettano un atroce spettacolo. Quell’attesa non sarà tradita.

Dempsey vs Firpo

Il match dura poco, ma rimarrà nella storia. Nella prima ripresa i due pugili vanno al tappeto ben nove volte. Per sette ci finisce lo sfidante Firpo, martellato da colpi durissimi. Ogni volta che l’argentino riguadagna barcollando il centro del ring trova Dempsey ad attenderlo per colpirlo nuovamente e rimandarlo giù al tappeto. Poi accade l’impensabile. Manca poco alla campanella e l’argentino spinge, con una ventata di orgoglio, Jack alle corde. Parte un destro forte e velenoso che buca clamorosamente la guardia di Dempsey e lo fa volare addirittura giù dal ring, direttamente sulle macchine da scrivere dei giornalisti. Jack accusa il colpo e stordito cerca di riguadagnare il quadrato. L’arbitro Gallagher inizia a contare. Molto lentamente, troppo lentamente, cercando di comprendere l’evolversi della situazione. Allo scoccare del fatidico dieci, così, Jack è di nuovo in piedi oltre le corde. In realtà, però, di secondi ne sono passati diciassette e l’arbitro pagherà quell’indulgente condotta con cinque settimane di sospensione, anche se di tutto questo ai centoventimila di New York non interessa nulla. La seconda ripresa è l’esatta replica della prima. Questa volta Dempsey, però, incalza da subito Firpo con una micidiale e bruciante sequenza di ganci. L’argentino va al tappeto cinquantasette secondi dopo l’inizio della seconda ripresa.

Dal ring a Hollywood

Jack Dempsey entra così nella leggenda. Conserverà la corona mondiale dei pesi massimi fino al 1926, quando gli verrà strappata da Gene Tunney, tra le polemiche, le ombre di un presunto avvelenamento e i fantasmi di un complotto ordito ai suoi danni dalla mala per toglierlo dalle scene. Tutte quelle storie lo proietteranno nel mito. Jack  diverrà un uomo pubblico e uno stimato attore di Hollywood, amico per la pelle di Charlie Chaplin e Rodolfo Valentino. La sua unione con Estelle Taylor lo imporrà sui principali palcoscenici di Broadway con “The Big Fight”, un dramma sportivo scritto a sua misura e somiglianza. Il cinema lo reclamerà. Così, tra gli anni Quaranta e Cinquanta, finirà per girare ben quattordici pellicole. Il sipario scenderà, infine, nella sua New York il 31 maggio 1983, all’età di 88 anni. Con lui si chiude per sempre la più grande stagione della boxe, la più poetica e letteraria, incidentalmente anche quella più saccheggiata da registi, sceneggiatori e cronisti a caccia di enfasi e retorica. Ma la leggenda di Jack sopravviverà anche a questo.