Diego Alverà racconta. La vita bella e lirica di Giuseppe Campari.

Agli anni di Giuseppe la velocità non era ancora affare sociale. In quell’inizio secolo correvano tutti, nobili e meccanici, ingegneri e garzoni, donne e uomini, baritoni e banchieri. Quella smania contagiava menti e atleti, cronisti e pittori, artisti e impiegati, pensatori e politici. Si lasciavano tutti stregare dal graffio dell’aria, dall’enorme tensione del volante e da quel pedale rigido e lungo che, quando affondava la sua corsa sino in fondo, faceva urlare il motore al cielo in un vortice di ghiaia, polvere e sassi. Era così che quelle auto pesanti gridavano alla ghiaia impennandosi tra buche e terrapieni. Era così che i pensieri si alzavano in cielo per ricadere scodando nella scia di acqua e fango.

Un fenomeno popolare

Le corse d’auto si fecero d’un tratto fenomeno frequentato e popolare, sentito e sognato, più della nobile arte pedatoria, dell’atletica o della marcia. Perché le auto che volavano sui selciati delle strade sfioravano il quotidiano e sfidavano apertamente la lentezza di quel mondo antico lasciando intuire la bellezza furtiva di un futuro esaltante e ringhioso. Quell’automobilismo d’assalto e leggendario, al di là dei suoi eroi, non sopravvisse però a quella prima grande stagione.

Fragili eroi e grandi leggende, come quella del “Negher”

Quel mondo, tra comparse e comprimari, conobbe fragili eroi e grandi leggende. Come Borzacchini, Nuvolari, Brilli Peri, Varzi, Ferrari, Ascari e Maserati. Come Giuseppe Campari, “El Negher” per tutti, amici e avversari. A Giuseppe piacevano la vita e il bel canto, i motori e le sfide, la cucina e le strade. Era diventato collaudatore in Alfa dove si era fatto apprezzare per l’innata capacità di domare quei pesanti e instabili siluri d’acciaio. Non era l’aria che sferzava il volto, che schiacciava gli occhialoni e spingeva il berretto all’indietro quasi volesse strappare la testa dal collo. Non era nemmeno la pioggia che bruciava la pelle o il sole, che accecava e confondeva l’orizzonte. Domare quei pesanti mostri significava soprattutto tanta polvere, da mangiare e sputare come e più di un manovale in un cantiere. Campari, il suo soprannome, lo doveva proprio a questo. Perché quando, dopo una giornata di prove, scendeva dalle auto che aveva testato era talmente ricoperto di polvere, sabbia e fango che aveva cambiato colore. E allora, giunto al traguardo, usciva dall’abitacolo, si ripuliva con il suo fazzoletto color cremisi e si infilava in qualche osteria a cercare buona compagnia, a rimediare vino e agnoli e a fare notte alzando sottane, belle arie e romanze.

Il respiro del melodramma

Per Campari la lirica non era soltanto una passione. Era piuttosto un modo di vivere e guidare. Perché il suo volante apparteneva alla grammatica agrodolce del melodramma, perché il respiro tragico delle arie sembrava ispirare il suo modo di accarezzare dossi e curve, dove regalava sempre brividi, emozioni e spettacolo. Perché Giuseppe era l’unico a cui riusciva quella magia meccanica, l’unico in grado di cambiare marcia in frenata senza grattare, spingendo la frizione sino alla fine del mondo per due volte in rapida sequenza, in una sorta di diabolica doppietta. Sfidava gli alberi, la polvere e passava via leggero, volando sugli sterrati, scodando e fendendo il muro di gente che, trattenuta a stento dalla milizia, si rassegnava ad inseguirne il profilo sino a scivolare nel suo cono d’ombra. Campari era la velocità e tutto quello che le si poteva chiedere.

Un baritono prestato al volante

Giuseppe era dotato di una forza poderosa, aveva capelli neri e un corpo ricoperto da una fitta coltre di peluria. Era un baritono prestato al volante. Si portava appresso una voce discreta, un fisico rotondo e imponente, baffi volitivi, occhi scuri e profondi e, soprattutto, un coraggio da leoni. Sposò una cantante e provò anche a salire sul palco in una notte d’opera al teatro Donizetti di Bergamo, cimentandosi nella «Traviata», il suo cavallo di battaglia. Non andò troppo bene. Rimediò pochi applausi e bordate di fischi, perché il loggione, si sa, mica si lascia affascinare dai miti. Forse anche per questo Giuseppe divenne un asso del volante. Qualcuno gli gettò anche un paio di guanti da guida, giusto per ricordargli qual era il suo destino. E così fu. Giuseppe raccolse i suoi migliori e più esaltanti successi sul finire degli anni Venti, quando ormai si cominciava a sentire il sordo e cupo rimbombo di un fato ineluttabile. Per tre anni sbaragliò la concorrenza di Nuvolari, Mazzotti, Strazza, Bornigia, Morandi e Varzi conquistando a ripetizione la Mille Miglia, la Coppa Acerbo e una manciata di Gran Premi, tra cui quello di Francia per la “gioia” dei cugini transalpini. Al volante strapazzò amici e colleghi, seminò guai e creditori in un fantasmagorico tourbillon di eventi e circostanze. Di una cosa, però, si poteva sempre star certi, perché lui non si sarebbe mai fermato, per nessun motivo, nemmeno per un impellente bisogno fisiologico. come capitò dì testimoniare anche al giovane Enzo Ferrari che dovette dividere l’abitacolo di una gara in salita con i suoi “prodotti di scarto”.

Il tranello del destino

Campari era avviato a entrare negli annali, a raccogliere i frutti della sua migliore stagione. Chissà dove sarebbe arrivato se il destino non gli avesse teso un tranello, se non lo avesse attirato nella trappola ordita da una maledetta macchia d’olio durante il Gran Premio d’Italia del 1933, a Monza, nel tempio della velocità.

Una fatale macchia d’olio

Dopo solo pochi giri la Duesenberg del conte Trossi rompe infatti il motore e inonda la pista di olio nel punto più temibile del tracciato, alla staccata del curvone Sud, dove le monoposto arrivano alla massima velocità. Il macadam, reso già scivoloso per la pioggia, diventa così un’impossibile lastra scivolosa. Campari guida il plotone davanti al rapidissimo Borzacchini, il pilota che di nome fa Baconin e che ogni volta che sale sul podio imbarazza i gerarchi fascisti che lo devono premiare. Sono due compagni di scuderia, due colleghi, due strepitosi acrobati. Ma a quella velocità e in quelle condizioni la bravura non serve a niente. Le due Alfa perdono aderenza, i due piloti lottano disperatamente con la gravità, poi scivolano lungo la tangente, si sfiorano e finiscono tragicamente fuori pista terminando la corsa nel fossato. Campari muore sul colpo, Borzacchini si spegne di lì a poco in ospedale. Nonostante le proteste, la gara continuerà crudele e feroce senza fermarsi, fino in fondo, come la vita e tutte le tumultuose esistenze che la compongono.